Comunemente si dice che affondiamo le radici nella nostra terra, nella nostra cultura, nella nostra famiglia ecc. ecc. Proviamo per un attimo a smontare pezzo per pezzo queste affermazioni e ci accorgeremo che non è tutto così chiaro e lampante come le affermazioni vorrebbero farci credere.
Innanzitutto, siamo tutti d’accordo, sappiamo di appartenere al regno animale e quindi non abbiamo radici. Prerogativa del regno vegetale. Un albero rimane immobile per tutta la vita in quanto, appunto, ha radici. Ma l’essere umano si sposta in continuazione, quindi, non ha radici. Il continuo spostarsi dell’uomo, in una vita, in un giorno, fa si che egli entri in contatto con i suoi simili anch’essi senza radici. Ma il contatto si estende anche alla cultura, alle tradizioni, alla genia dei suoi simili, alla religione.
Come si fa a dire “le mie radici”, escludendo così la parte più interessante perché interessata e curiosa dell’animale uomo. Come si fa a condannarci ad una staticità vegetale quando siamo destinati all’esplorazione dei corpi celesti? Quando siamo destinati ad interloquire con altre razze, luoghi, momenti in un inesauribile movimento fisico e mentale?
Lasciamo al regno vegetale la staticità dei corpi.
Lasciamo all’uomo animale la mobilità del corpo.
Quante incomprensioni, quanti fraintesi, quante colpevoli coscienze razziste, quante guerre scongiurate se si ammette di non avere radici. O meglio quando si connette che è la vita stessa, la diversità, la sopraffazione a non avere radici.
Giuseppe D’Apolito