Nata a Forlì, Eleonora Mazzoni (nella foto) si è laureata a Bologna in Lettere moderne e diplomata alla Scuola di Teatro diretta da Alessandra Galante Garrone. Si è poi trasferita a Roma per fare l’attrice. Ha lavorato in teatro (con Franco Branciaroli, Giorgio Albertazzi, Gianfelice Imparato), nel cinema (con Citto Maselli, Eros Puglielli, Eugenio Cappuccio, Giorgio Diritti) e in diverse fiction televisive (Elisa di Rivombrosa, Il giudice Mastrangelo, Il bambino sull’acqua, Il commissario Manara).
Le difettose è il suo primo romanzo. In questo assoluto esordio letterario la protagonista, Carla, ha quasi quarant’ anni, un compagno in gamba, un lavoro stimolante all ‘università e un certo fascino. Ma non riesce a concepire un figlio. Prova dai rapporti mirati nei giorni fertili all ‘agopuntura, dallo yoga a percorsi alternativi e strampalati, che, pur facendo a pugni con il suo cervello logico e razionale, con qualcuna hanno funzionato. Il figlio però non arriva. Per una come lei, abituata a centrare l’ obiettivo, il senso di fallimento brucia senza consumarsi. Il desiderio si trasforma piano piano in ossessione. Ci sono figli cercati con un’ ostinazione cristallina, perché il tarlo della loro assenza scava fino a occupare tutto lo spazio di una vita.
Quando Carla comincia a frequentare il «reparto delle donne sbagliate» scopre un esercito vitale e disperato di donne come lei: Katia, Licia, Loredana, Emma, Giuggiola2000, Biancaneve05, Luna Rossa. Sono tante. Tantissime. Conosciute nelle sale d’aspetto o in chat. Si ritrovano tutte in fila, mese dopo mese, a eseguire lo stesso rituale: gli ormoni, il pick-up, il transfer, l’attesa. Conoscono il proprio corpo e i suoi segnali con una precisione maniacale. Usano un oscuro gergo da iniziate fatto di sigle, di «malefiche», «compitini» e «maratonate», «pennute» e «incicognamenti». Una specie di grande famiglia, un mondo sconosciuto, eppure reale, anzi realissimo, sommerso ma vivo, poliedrico e sfaccettato, una sorta di rete carbonara invisibile a occhio nudo, che protegge e sostiene. E che fa sentire meno sole e quindi un po’ meno “difettose”.
In un’intervista per Vanity Fair hai dichiarato: «avevo una storia da cui partire: la mia». Quanto c’è di autobiografico nel libro?
Il libro, anche se ho creato una protagonista e dei personaggi inventati, nasce da un’ esperienza personale. Ho impiegato 6 anni prima di riuscire a diventare madre. Ad un certo punto mi sono ritrovata “esperta” di tanti aspetti emotivi e psicologici legati alla maternità: sperare di rimanere incinta, non riuscirci, intraprendere un percorso di fecondazione artificiale, fallirlo, scoprire di aspettare un bambino ma improvvisamente perderlo. Tra l’ altro mentre scrivevo il romanzo non sapevo come sarebbe finita la mia avventura. Ho consegnato il libro all’ Einaudi e pochi giorni prima avevo cominciato quella che avevo deciso essere la mia quarta e ultima Icsi ( avrei intrapreso di lì a poco la strada per l’ adozione). Ora ho due gemelli di sette mesi.
Il desiderio di maternità rischia pericolosamente di minare, oltre che la stabilità fisica ed emotiva di Carla, anche quella della relazione con il compagno Marco. Fino a che punto ci si può spingere? Qual è il momento in cui ci si accorge che combattere per avere un figlio diventa eccessivo?
Ci si può spingere fino a perdersi. Te ne accorgi perché il desiderio scava un vuoto. Niente ha più sapore. Interesse. A volte è più evidente. Ho parlato con donne che hanno vissuto una vera e propria disperazione. Anch’io l’ho provata. Dentro a quel fallimento (così primordiale) è come se convogliassero tutti gli altri fallimenti della nostra vita, e fossero capaci di risucchiarci in una terra desolata, dove si rinuncia alla lotta e non ci sono più né scopi né direzioni. Nessuno ti può dire quando fermarti. Lo devi capire tu. Nel romanzo Carla è costretta a fare un percorso di cura, di ricerca della felicità, di guarigione dall’ ossessione, che, senza rendersene conto, le sta spolpando le giornate e togliendo la voglia di vivere. I suoi mentori sono Seneca, il suo scrittore preferito, con cui intraprende buffi dialoghi immaginari sulle questioni importanti dell’esistenza e la nonna Rina. Alla fine Carla diventa una persona migliore, più consapevole ed equilibrata. E’ a quel punto che può dire che le “difettose”, rispetto alle madri “secondo natura”, hanno una marcia in più. Perchè possono trasformare la difficoltà in opportunità di crescita.
L’istinto materno è un assunto inconfutabile. Quanto, secondo te, è anche frutto di condizionamenti culturali (la donna è nata per fare figli)? E questi condizionamenti quanto influenzano coloro che, impossibilitate ad averne, si sentono defraudate della loro femminilità?
Soprattutto nella nostra società, dove a lungo la donna è stata funzionale al suo ruolo di moglie e madre, il condizionamento è fortissimo. Per questo in tutte le culture, razze e religioni la sterilità è sempre stata considerata una disgrazia. Peggio. Una punizione di Dio. Sono fardelli di cui è difficile liberarsi. Detto questo, c’è una parte istintuale, un richiamo della natura con cui tutte le donne, anche quelle che decidono di non avere figli, devono fare i conti. Io penso che la maternità non sia solo legata al procreare. E’ una categoria dell’anima. E’ un potere. Una forza. Che va fatta emergere nella nostra vita indipendentemente dal fare bambini.
Parliamo di Carla e del rapporto con sua madre e sua nonna: con la prima ha un legame problematico e carente d’affetto, come se dovesse meritarsi il suo amore (“«Come sei brava», mi diceva. Non mi ha mai detto: «Come ti voglio bene»”). Con la nonna Rina, invece, c’è una profonda connessione di spirito e una forte condivisione d’intenti. Quanto è necessario fare pace con le figure femminili della propria famiglia, quindi con il proprio passato, per accogliere con serenità il futuro?
Secondo me è fondamentale un’accettazione attiva del proprio passato. Carla ha un rapporto di madre-figlia con la nonna, perché la nonna, dopo essere stata, a causa della depressione, una cattiva madre con sua figlia, la madre di Carla, ad un certo punto, grazie all’amore di un uomo, è rinata (“Lei diceva che ogni persona nasce due volte. Quando trova il suo posto nel mondo è la nascita più vera”) e solo a quel punto è diventata genitrice. Madre si diventa. Non si è. E’ un’operazione culturale, non un frutto della natura. Anche Carla alla fine, aldilà del figlio che non arriva, diventa genitrice. Di sua madre, di cui capisce il dolore e i conformismi che l’hanno ingabbiata. Dei suoi studenti. Di se stessa.
È capitato che qualche “difettosa” ti abbia contattata dopo aver letto il libro?
Tantissime lettrici mi hanno contattato tramite Facebook o per mail (attraverso il mio sito www.ledifettose.it ). Molte esordivano dicendo: Sono stata (o sono) anch’io una difettosa. Alcune mi hanno raccontato la loro storia. Leggendo il romanzo tutte si erano sentite capite e rappresentate. C’era anche chi mi diceva di essere una difettosa e di sentirsi ben descritta, pur avendo avuto figli. E forse quello era il complimento più bello. Come se fossero passati anche i temi più sotterranei. In fondo Le difettose non è solo un romanzo sulla fecondazione assistita. È un libro che parla del mistero della vita, dei nostri desideri, della difficoltà di esaudirli, del perché li perseguiamo e pagando quali prezzi, perché li abbandoniamo. Parla di cosa significa sentirsi realizzati. Del perché la nostra volontà non basta a perseguire quello che ci prefiggiamo. Che rapporto instauriamo con quell’imponderabile che regola le nostre vicende e che possiamo chiamare sorte, destino, karma, Dio. O fortuna, come lo definivano i latini tanto amati da Carla.