
Se amate frequentare il centro storico di Napoli vi sarà capitato di passeggiare lungo Via Benedetto Croce, affrontare la salita di San Sebastiano ed affacciarvi nella splendida cornice di Piazza Bellini. E’ solo uno dei tanti itinerari che si possono scegliere per gustare l’atmosfera unica ed intrigante della capitale partenopea. E vi sarà certamente capitato di essere rapiti da una voce onirica. Quella di Cristian Vollaro che proprio in queste strade ha costruito il suo palcoscenico a cielo aperto. Giovane artista poliedrico (poeta, pittore, scultore) Cristian deve il suo successo ad una voce inconfondibile, un vero e proprio strumento che ‘O Marinar (questo il nome d’arte) utilizza con sapienza, dosando potenza ed orgoglio, dolcezza e disperazione, il megafono di una città che sa sempre rinascere dalle proprie ceneri.
“Tutto quello che ho imparato l’ho imparato rubando a chi questo mestiere lo fa con maestria. Sono un autodidatta, non ho mai preso lezioni, le uniche sono state quelle che la mia famiglia mi ha dato da bambino e che mi sono servite ad imparare i valori veri, quelli che ti accompagnano in tutto il cammino della vita”.
Voce e chitarra, un repertorio sterminato che spazia dalla musica napoletana a quella d’autore, alle sonorità del Sud America. Ma da dove inizia questa tua passione?
“Ho iniziato a suonare da bambino quando avevo appena 4-5 anni utilizzando come i fustini di detersivo per i panni a mo di percussioni. Vedevo che si prestavano bene perché producevano un suono che mi piaceva molto. Poi ho visto una chitarra e me ne sono innamorato subito. E’ stato un colpo di fulmine, ma siccome provengo da una famiglia operaia, quattro figli e tanti guai, una vera chitarra non la potevo comprare. Avevo sette anni quando afferrai un bastone della scopa e iniziai a limarlo da un lato strofinandolo ostinatamente contro il muro con la pazienza che solo l’immaginazione e la caparbietà di un bambino può dare. Misi un chiodino, di quelli che usano i calzolai, a semenzella, sopra e un altro sotto. Feci tendere da mio padre un filo e iniziai a vedere che il filo a seconda dell’estensione produceva note differenti. Il natale successivo la svolta: a casa mia fece il suo ingresso una chitarra vera. A regalarmela fu mia madre perché a casa erano pochi i convenevoli e ancora meno il tempo per alimentare i miti di Babbo Natale o della Befana. La custodisco tutt’ora con estrema gelosia, si trattava di una Eco, stiamo parlando del 1988-89. E così iniziai a cantare. O tien a rint e o stai cacciann già a for. Comprai un libricino per apprendere i rudimenti della tecnica. “Canti in tasca” si chiamava e sta ancora nella custodia di quella chitarra che è o primm ammor e come tale non si tocca. Iniziai a capire e a studiare il funzionamento di questo strumento per cominciare ad esibirmi sulle spiagge insieme gli amici”.
La prima svolta della tua vita, l’approdo in una città, e che città. Napoli.
“E si. Io nasco in Costiera Amalfitana, mia madre è di Vietri sul Mare, mio padre è di Atrani. Napoli e le sue strade sono diventate presto la mia casa e il mio palcoscenico”.
E da allora a Napoli ti esibisci quotidianamente. Ma che cosa rappresenta per te l’arte, la musica e quale è il valore aggiunto, se esiste nel praticarla per strada.
“Io penso che la musica, e l’arte in generale, deve essere della gente e pertanto fatta tra la gente. Solo così si può inviare un messaggio, il proprio messaggio che non deve servire ad apparire, ma per educare tra virgolette. Quello che noto con un certo dispiacere è che oggi esiste un’omologazione spaventosa che toglie spazio alla propria identità, si va avanti a colpi di moda. Questo discorso vale in ogni campo, è tutto deviato dal denaro. Anche l’arte. Credo che la musica vada ascoltata laddove veramente si produce: io per esempio sono stato al Santiaghero a Cuba, a L’Avana, a Puerto Rico, nel nord est del Brasile, in Spagna dove si suona ancora il flamenco. Nei paesi poveri sembra proprio che le persone dedicano molta più attenzione e passione all’arte, alla vera essenza dell’arte, mentre nell’Europa e nel mondo del benessere la musica è diventata un ornamento della televisione. Mi riferisco ai talent ad esempio. Tanti mi dicono sei bravo perché non ci provi? Ad essi rispondo che continuo per la mia strada e non mi interessano queste scorciatoie. Chi mi vo bene appriess m vene si dice a Napoli e io credo sia così. Il mio pubblico mi deve seguire per quello che suono, per quello che dico, per le mie sperimentazioni non perché abbraccio qualche moda, porto i capelli in una certa maniera. Per questo scrivo sempre in base alle esperienze che vivo, quello che mi racconta un amico di strada, i suoi problemi, le sue paure. A me piace avvicinarmi quelli che vengono emarginati dalla società “perbene” che hanno solo grande bisogno di calore umano. A gent è troppo a cazz suoi. Per i perbenisti gli emarginati non esistono, sono invisibili. E’ una cosa che non sopporto. Si tratta di persone che hanno avuto esperienze diverse, ma che vivono nella stessa polvere. Tutti andremo a finire sotto tre metri di terra. Io non voglio essere leader o capo di niente perché credo che chi si cala in questa parte poi diventi spesso “nu fetente”. Voglio portare con la mia musica e la mia voce un messaggio: dare una identità al musicista partenopeo e del sud Italia. Abbiamo delle forze enormi, musicisti eccezionali che vengono boicottati da un sistema balordo. Non voglio cantare a San remo, io voglio il San Paolo dove trovi la gente vera, quella che si sveglia presto la mattina e va a lavorare. E’ la gente semplice, quella che fa sacrifici, ad essere più attenta ai messaggi che cerco di lanciare con la mia musica perché sanno che sono uno di loro”.
Quindi la strada insegna il rispetto per la dignità dell’uomo. La chiami”marciapiedologia”. Di cosa si tratta?
“E’ l’arte di vivere per strada senza sporcarsi. Io sono un buon praticante di questa disciplina. Se vivi tutti i giorni per strada impari delle leggi che non sono scritte. La strada è la casa di tutti e come tale va rispettata. Se ad esempio hai bevuto è necessario, a fine serata, gettare le bottiglie e gli altri rifiuti nei cassonetti perché la mattina seguente quello stesso luogo sarà abitato da genitori con i loro figli, da turisti che vogliono godere dello splendore della città, e bisogna far trovare tutto in ordine. Ecco la strada ha una sola legge, la strada. Può succedere di tutto, ti puoi trovare a Rio de Janeiro e assistere a una sparatoria o a New York e suonare insieme ai più grandi musicisti. Ogni luogo ha le sue regole. Per starci bene bisogna adattarsi essere camaleontici”.
Come si fa?
“Bisogna saper riconoscere chi ti sta difronte. Sembra una magia ma non lo è. Chi vive per strada ha un dono grande: riesce a riconoscere chi si nasconde dietro gli occhi di chi gli si avvicina.
episodi curiosi?
E incontrando tanta gente ogni giorno chissà quanti episodi curiosi o storie interessanti puoi raccontare.
“Beh ne ho viste davvero tante. Una volta a un matrimonio arrivammo per suonare, ma dopo le prime canzoni iniziarono a volare sedie, tavoli, o sposo ca’ capa rotta. Non prendemmo né soldi, né applausi, ma per fortuna nemmeno le mazzate. Un’altra volta stavo suonando per strada. Una signora con un volto bellissimo segnato però da chissà quali sofferenze si affaccia da un “vascio” e mi invitò a mangiare con loro il ragù. L’invito fu cortese e non nascondo che l’odore era ancora più invitante quindi decisi di entrare, ma chiesi solo di fare un po’ di scarpetta con il pane. La signora mi convinse e non fu difficile visto tutto il bene di Dio che c’era in tavola. Al tavolo era seduto anche il figlio e quando gli chiesi, dopo aver mangiato, di andare a prendere un caffè lui mi rispose che non poteva uscire. Grazie alla mia marciapiedologia capii il motivo e da lì decisi di non andare a lavorare, a fare le mie postegge; la mia coscienza mi disse che era più importante regalare la mia mezza giornata a lui, suonando e ascoltando il racconto della sua vita. Ho preso spunto anche per scrivere una canzone “Quattro mura” che racconta di come anche la casa possa diventare una prigione”. Ecco, questo è il mio modo di concepire l’arte. Devo mangiare per strada con un amico, andare da chi mi vuole bene perché ho portato allegria con le mie canzoni. Ecco le persone che mi danno energia. E’ la fame che fa uscire il lupo dalla tana. Con questo non voglio dire che non abbia progetti concreti, ma allo stesso tempo con i miei progetti vorrei portare qualcosa alle persone bisognose, a quelle che hanno vermene bisogno di una mano. Proprio gli invisibili, il mio pubblico più gradito”.
Tu sei cantautore ed interprete. Quanti pezzi hai scritto fino ad oggi e quanti fanno padre del tuo repertorio?
“Fra cose scritte ed accantonate, frammenti di brani che andrebbero incastrati ad altri, diciamo che attualmente siamo ad una ventina di pezzi completi. Per quanto riguarda il mio repertorio da interprete posso solo dire che è vastissimo e spazia dalle canzoni napoletane a quelle italiane con preferenza per quelle di Califano, poi Aznavour, la musica del sud America. Su due piedi direi che a memoria conosco circa duecento canzoni.
Da quello che dici si capisce che hai viaggiato molto.
“Per quanto ho potuto, mi sono dato da fare. Posso dire che per quel che riguarda il sud Italia in ogni città ho un amico che può accogliermi e aiutarmi in caso di necessità. Nei paesi e nelle città dove sono state ho cercato di lasciare un segno e questo evidentemente ha fatto nascere amicizie vere, sincere. A me piace tutto quello che è buono, ma buono per tutti. Le armi, la religione, il denaro, sono tutte cose che non sono buone non solo per me, ma per tutti, perché in loro nome nel mondo ci si uccide e si compiono i misfatti più atroci. Anche nel Vangelo si dicono queste cose. E a tale proposito ho in cantiere un’idea per il mio prossimo lavoro che penso si intitolerà “Dal Vangelo secondo Cristian”. Racconterò le mie visioni su quella che considero l’odierna apocalisse. Ci siamo già dentro e molti anche artisti di un certo calibro ne hanno già parlato (Bob Marley). Oggi si parla di crisi economica. Per me è principalmente una crisi di valori. L’uomo non sa più coltivare sé stesso il suo spirito. Oggi l’uomo lotta controlli suo simile ed è questa la vera crisi”.
Finché c’è strada c’è speranza.
Luigi Mannini