“La hope è passata, l’arte resta”

obeyNon ci entri per caso. Nel Palazzo delle Arti di Napoli. A vedere la mostra di Shepard Fairey. Uno dei più quotati street artist, conosciuto ai più con lo pseudonimo di Obey.

#‎Obey‬ è anche il titolo della mostra, visitabile fino al 28 febbraio 2015, curata dal critico d’arte contemporanea Massimo Sgroi e organizzata dall’associazione Password Onlus, in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura e al Turismo del Comune di Napoli.
Non ci entri per caso.

Perché anche se non sei appassionato d’arte, non puoi dimenticare la speranza. Che il mondo tutto, internazionale, politico e sociale, aveva riposto in una scritta che ovunque si rivolgeva alle masse. A caratteri cubitali.
Hope.

Era il 2008 e un poster in quadricromia che riproduceva il volto stilizzato di Barack Obama – candidato per il Partito democratico statunitense – diventava l’immagine simbolo della campagna elettorale del Presidente Americano.
Una volta eletto, Obama inviò una lettera all’artista, successivamente resa pubblica, in cui scriveva: “Caro Shepard, vorrei ringraziarti per aver messo il tuo talento a disposizione della mia campagna elettorale. Il messaggio politico dei tuoi lavori ha spinto gli americani a credere nella possibilità di un cambiamento”.

Queste furono le parole di ringraziamento del primo presidente afroamericano ad insediarsi alla Casa Bianca. Che all’opinione dei più autorevoli analisti deve molto al manifesto in cui il suo volto è virato in rosso e blu.
I colori volutamente rosso e blu. Che convergono al centro. Il rosso e il blu, i colori repubblicani e democratici uniti. E il messaggio nascosto è forte. È che Obama possa rappresentare l’America nel suo insieme. Oltre le fazioni partitiche.
Il rosso e il blu e l’ accordo fra le parti.
E con lui, la street art arrivò al potere.
“L’estrema riproducibilità del manifesto – scrive Sgroi – sfugge al concetto stesso di opera. Per diventare immagine contaminatrice…virale nel web”
Ma per capire la forza di quella che Peter Schjeldhal – critico d’arte del New Yorker – definì la più efficace illustrazione politica americana dai tempi dello zio Sam vestito della bandiera stelle e strisce statunitense e che reclutava soldati col dito puntato e la scritta “I want You For U.S. Army”, non si può non ripercorrere – attraverso le 60 opere esposte nello spazio museale di Palazzo Roccella – l’ evoluzione stilistica di Shepard Fairey. Dalla serie realizzata per Venezia all’ “Obama Manifest Hope”, a cui si affiancano lavori provenienti da collezioni private.
Tutte riconoscibili. Ché risentono forte del motto dell’autore: ” Il mezzo è il messaggio”. A spiegare come il manifesto sia determinante per diffondere un messaggio. Più del messaggio stesso.
La famosa locuzione che lo ispirava ” il medium è un messaggio” sintetizza il pensiero del sociologo canadese Mc Luhan, secondo cui i mass media non sono neutrali. Ma hanno la capacità di influenzare in modo inconscio le persone , con immagini apparentemente prive di senso, ma presenti anche in maniera casuale nel loro ambiente di vita.
L’arte è quindi la possibilità di comunicare. Anche nella strada.
Che diventa vettore comunicativo.

Dove è impossibile distaccare i contenuti dalla loro rappresentazione visiva.
E il giovane studente di graphic design Fairey lo capisce bene. E incomincia ovunque ad attaccare i suoi sticker con sopra la faccia della figura mitica del wrestling americano,
André the Giant. Ne tappezzava la città. Rompendo le regole, usando spazi pubblicitari. Sui pali della luce. Sulle cassette delle lettere. Sulle telecamere di sorveglianza.
La sua avventura artistica iniziò così per gioco.
Con un adesivo. E uno slogan “Obey”. Obbedire.
(tratto dal film Essi vivono di John Carpenter del 1998).
L’idea era quella di sconcertare chi guardava il manifesto. Insinuare nelle loro menti domande: Cosa sto guardando? Cosa mi stanno chiedendo di comprare?
E verificare così la reazione della gente. Questo è quello che lo interessava veramente.
L’arte come l’adesivo non ha alcun significato in sé. Esiste solo per stimolare – chi vi si imbatte – ad una reazione.
E le reazioni e le interpretazioni saranno le più disparate e diverse a seconda delle personalità e relative sensibilità.
Obiettivo della sua ricerca artistica è ancora oggi però indurre lo spettatore prima a pensare e poi a reagire.
Non il contrario.

Con un linguaggio semplice. Che non può stare fermo, ingessato nelle gallerie d’arte polverose e dimenticate. Dei ricchi.
Un linguaggio che trovi per strada. Sui muri. Sulle pensiline degli autobus. Sulle saracinesche dei locali sfitti. Nelle stazioni delle metropolitane. E ovunque ci siano persone. Che vanno. Vengono. S’ incrociano. Strade. Volti. Immagini. Su cui cadono veloci altre immagini. Che Riflettono. Dando vita a nuove risposte.
E nuovi stimoli all’ambiente in cui si muove.
“Question Everything”. Discuti di qualsiasi cosa. Questo è l’assunto di base.
E se ti giri tra una serigrafia e l’altra, ti sembra davvero di dialogare su tematiche sociali. E con lui confrontarti su argomenti sempre attuali. La Guerra. La Repressione. La Propaganda. La pace che si realizza in una tela a Piazza San Marco. Come finale di una battaglia che contrappone la leader delle black panter, Angela Davis ed una guerrigliera Vietcong. Dove l’ ansia di libertà viene sovrastata dal valore universale della pace.
E ancora il tema del razzismo, della difesa dell’ambiente. Paesaggi urbani, falsamente romantici, disturbati dai fumi delle ciminiere delle industrie e dai ripetitori dei segnali dei cellulari.
Una parodia di Uncle Sam, lo zio d’America sta al centro di una sala.
Con in mano i sei teschi. A rappresentare sei diversi valori.
Le virtù democratiche: Diritti umani. Democrazia. Pace. Giustizia. Privacy e Libertà. Valori che l’artista considera ormai morti.
E su cui impressa vi è le frase: ” Fate come dice, non come agisce”
Il messaggio è forte. E pure lo stimolo a interpretare. E riflettere.
Mi affaccio dalla terrazza di Palazzo Roccella. E c’è traffico di auto. E fin sopra arriva lo smog dei tubi di scarico e il vocio della folla. Impazzita di una gioia di consumo. Di cose. Plastiche. Di cotechini. Carte regalo e botti di Capodanno. Capitoni. E auguri. Di cui non sa bene i motivi.
Io guardo uno ad uno i teschi. Mi fermo su Giustizia.
Intanto la gente sta comprando i regali di Natale. Come se fosse un dovere. Che invece c’ha i problemi di lavoro. I mutui decennali. L’IMU. La Tasi. E l’inquinamento fin dentro le conserve di pomodoro e le buste di treccia e mozzarella. Prodotti buoni della terra dei fuochi.
La mostra è quasi deserta.
La tentazione è quella di rubare uno scatto. Farne una gigantografia. E metterla in una qualsiasi aula di Tribunale.
Il teschio Giustizia. Con quello di Democrazia. Sostituirne l’ icona con quella della bilancia.
E vedere la faccia di un avvocato o di un giudice dinanzi alla sostituzione della frase “la legge è uguale per tutti” con “Obey the Giant”
Dice Sgroi che la “Hope”, la speranza – quella di Obama – è passata. Che almeno l’arte ci resta.

Ornella Scannapieco

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