Termini per descrivere il concerto di Renzo Arbore: freddo, napoletanità, sindaco logorroico. Il 18 agosto, l’Orchestra italiana di Renzo Arbore, con anche lui, è arrivata al freddo e al gelo di Agerola.
Dovrei stare qui a raccontare della scaletta musicale? Dei riferimenti a? Dei ringraziamenti a?
Invece stravolgo l’ordine e parto dai saluti. Mai visto un sindaco più logorroico. Serrapica di Gragnano, ai tempi d’oro, era conciso al paragone col sindaco Luca Mascolo. Ce lo siamo trovati sul palco, subito dopo il medley finale con “Ma la notte no-Vengo dopo il tg-La vita è tutta un quiz”.
È arrivato con tre ragazzette con bustine e busticelle per l’artista. Ha meticolosamente descritto il contenuto di ogni presente, con tanto di fornitore. C’era il Tarì amalfitano (moneta della Amalfi Repubblica Marinara), una targa alla carriera con dedica (che Arbore ha etichettato come lapide con tanto di necrologio) e una foto di Salvatore Di Giacomo, scattata sul posto, con poesia in dialetto e lettera autobiografica, il tutto su carta di Amalfi. Non scrivo le gioiellerie che hanno fornito moneta e targa ché sarebbe pubblicità abbastanza poco occulta.
Renzo Arbore non pareva molto preso dalla presentazione di tutti ‘sti souvenir, cercava affannosamente di interrompere il sindaco, di portarlo su altri territori amici, ma nulla. La tenacia agerolina era personificata da quell’uomo in abito blu che ha lasciato il palco solo quando ha adempiuto il suo dovere e ha ricordato per ben quattro (quattro!) volte che ringraziava Arbore per essere “ambasciatore autentico internazionale della musica napoletana”. Nessun riferimento alla escursionista che ha perso la vita nel “Sentiero degli dei” che tanto è stato decantato dal sindaco e dall’artista.
Prima dell’irruzione del primo cittadino, lo spettacolo si è svolto in maniera abbastanza scorrevole. Arbore è un uomo di televisione e, si sa, guarnisce le sue esibizioni con sketch, barzellette e aneddoti della sua lunga carriera. Non so quanto sia stato interessante ascoltare un quasi ottantenne che parlava con nonchalance di grandezze, grossezze e lunghezze per oltre un quarto d’ora. E non erano battute a doppio senso, il monologo era univocamente proiettato a far ridere trattando quegli argomenti generalmente discussi con tatto e velata ironia. Un po’ mi disturba la pretesa di scaturire nel pubblico la risata e l’applauso corposo facendo battute su pudenda e frivolezze. Siamo così scontati? Evidentemente sì, giacché alla battuta seguivano le risa sguaiate e l’applauso copioso.
La scaletta ha permesso ai quindici componenti de L’Orchestra italiana di presentare le loro specialità; percussioni, mandolini e voci hanno riscaldato la fredda serata. Sono stati presentati testi della cultura classica napoletana con nuovi arrangiamenti in chiave country western, blues, jazz e second line.
Abbondanza di aneddoti su Luciano De Crescenzo, napoletano doc. E riferimenti a quando lui, Arbore, viveva a Foggia, sua città natale, e veniva disturbato dai “napoletani” (napoletani per provenienza ma era così marcato chiunque, a prescindere dal luogo di nascita) che andavano in giro col piattino a cantare sotto le finestre del paese, con fisarmonica in spalla, in cerca di spiccioli. Un po’ come fanno i rom adesso in zone nostre. “Stanno arrivando i napoletani che cantano, chisti vonn ‘a moneta?”.
Il biglietto dello spettacolo parlava di arena San Matteo. Ci ritroviamo nel campo calcistico San Matteo. C’era l’arena, ‘a rena, per essere precisi. Posti divisi in quattro settori, platea compresa. Ci si aspettava la distribuzione di plaid, almeno per chi ha speso cinquantacinque euro per sedere nelle prime file. Lo fanno anche i bar in questo periodo. La consumazione all’aperto prevede l’uso del plaid di pertinenza della seduta, compreso nel servizio del coperto. Invece alla Arena San Matteo c’era l’area ristoro ma non il plaid.
Se si cantavano movimentati brani (vedi ‘O sarracino) ci si muoveva e dei 18 gradi se ne percepivano 20. Ma durante i monologhi sulla pillolina blu e mentre Gianni Conte o Barbara Buonaiuto eseguivano brani del sentimiento napoletano, giuro, si rasentavano i due gradi.
L’inizio è stato caratterizzato da una serie di filmati sul maxi schermo piazzato alle spalle dell’orchestra. In dieci minuti abbiamo circumnavigato il mondo, esibizioni degli anni ’90 che portavano Renzo Arbore e la neonata Orchestra da Tokyo a Vancouver, da Mosca a Caracas.
Nella mia scaletta stravolta, il primo pensiero di ieri, ultimo nella stesura, va ad una strofa di Federico Salvatore: “Non posso sopportare che un signore, nato a Foggia, porta Napoli nel mondo e la stampa lo incoraggia e che il critico ha concesso al neomelodico l’evento di buttare in fondo al cesso Napoli del ‘900”.
Anna Di Nola