La solitudine di un sorriso a metà

Il 23 settembre 1985 veniva assassinato dalla camorra il giornalista de "Il Mattino" Giancarlo Siani. Quel ragazzo avrebbe compiuto, lo scorso 19 settembre, sessant'anni. Nonostante il sangue che l'avvolge, la sua storia continua a trasmettere un altissimo insegnamento di giustizia e di vita.

È una  notte di settembre. Dolce e mite, come sanno essere le notti di questo mese, porta girevole tra estate e autunno. Siamo in un quartiere. Il Vomero, la zona di Napoli dove vive la borghesia agiata cittadina. Un giovane, che da pochi giorni ha compiuto ventisei anni, sta rincasando dopo una giornata di lavoro. È alla guida della Citroën Mehari, un improbabile vettura quadrata ed esotica, color verde pisello.

Il ragazzo è un giornalista, precario. Collabora da diversi anni per il quotidiano “Il Mattino“, il giornale più importante e letto del meridione. Un giornalista che ha fatto molto parlare di sé negli ultimi tempi. Perché questo giovane non si limita a riempire le pagine, a battere a macchina articoli su fatti poco salienti. Al contrario indaga, studia, approfondisce. In particolari gli appalti post terremoto ’80, le lotte intestine alla Camorra, i tradimenti, gli affari e i precari equilibri criminali.

Il giovane che sta tornando a casa, in questa mite serata di settembre, non può saperlo. Ma è già morto. Nei pressi del suo palazzo, due killer lo stanno aspettando. Più di dieci anni dopo si saprà che ad armare la mano di quei sicari sono stati i Nuvoletta, il potente clan camorristico di Marano di Napoli, accusati da Siani di aver “venduto” con una soffiata ai carabinieri il boss Valentino Gionta, padrone della camorra di Torre Annunziata, in cambio di un patto di non belligeranza con il boss Antonio Bardellino, esponente di spicco dei Casalesi, in quegli anni impegnato a invadere proprio il feudo di Gionta.

Un cronista scomodo, il potere criminale, camorra, Napoli, le inchieste. Due colpi di proiettile, una vita spezzata. Forze dell’ordine e giornalisti troveranno quel giovane piegato sul lato, al posto di guida della Mehari, trivellato di colpi. Eppure sulla faccia giovane, riempita dai capelli neri e ondulati e da quegli occhiali grandi come due soli, non c’è traccia di dramma. Quasi un ghigno, amaro, di chi quelle pistole le stava attendendo da tempo.

Giancarlo Siani è stato ucciso in un agguato di camorra la sera del 23 settembre 1985.

Giancarlo Siani, il giornalista «giornalista» ucciso quella sera di settembre, oggi avrebbe sessant’anni.

L’agguato a Siani avvenne alle 20.50 circa, sotto la sua abitazione, in via Vincenzo Romaniello, a pochi passi da piazza Leonardo, nel quartiere napoletano dell’Arenella.

Qualche cinico, non troppo velatamente, ha fatto notare che Siani ne ha passati (di anni) più sotto terra che in vita. Eppure Siani, quel giovane cronista col sorriso a metà, la Mehari e la faccia da bravo ragazzo, non fa altro che ribaltare questa prospettiva. Perché dal giorno della sua morte Giancarlo è piombato come un vento fresco nelle nostre vite. Ha dato coraggio a giovani, madri, associazioni e a interi quartieri. Ha instillato in tutte queste membra vive della società civile la linfa vitale della ribellione, della lotta, del dire «no» a chi ha affamato e affama tuttora le nostre terre; a chi uccide, svilisce, mortifica i nostri territori e il nostro futuro.

Forse ben oltre le sue intenzioni, Siani è diventato un simbolo. Una favola, per meglio dire. Il racconto di un ragazzo pulito che ha deciso di dire basta alla violenza. Sebbene la sua favola sia imbrattata di sangue e morte, la reale forza di Siani risiede nel continuare a trasmetterci un insegnamento di giustizia e di vita che solo le vere, autentiche, favole sono in grado di fare.

Vorrei concludere questo racconto con una riflessione. Una nota a margine, se mi consentite.  Ogni anno, in mezzo al ricordo e alla commozione per la figura di Siani, non posso fare a meno di pensare a una cosa. Ai Giancarlo Siani di oggi. Ai tanti, compreso il sottoscritto, cronisti e giornalisti precari e mal pagati, minacciati, soli. Senza garanzie, senza coperture, senza appoggi. Sono tantissimi. Alcuni amici, molti colleghi che denunciano, raccontano, fanno inchieste, il più delle volte gratis o con compensi da fame. Quelli che non capiscono, quelli che non sanno cosa vuol dire essere giornalisti, dicono «Ma chi ve lo fa fare?», oppure «Pensate davvero di cambiare le cose con un articolo?». Sono le stesse parole che venivano dette anche Giancarlo.

Perché Giancarlo non sia morto invano, e perché la sua favola non resti un orpello da raccontare a tempo perso, dobbiamo sforzarci tutti di fare una cosa: ricordare, sempre, Siani e batterci perché i giornalisti «giornalisti» di oggi non siano più lasciati soli come successo a quel ragazzo, bellissimo, che andava in giro con la sua Mehari, portando a spasso la solitudine di quel sorriso a metà.

Donazione sostieni il Gazzettino Vesuviano