Pochi giorni fa (9 giugno) è stato pubblicato lo studio per il trattamento domiciliare dei pazienti Covid-19, che vede come coautore il prof. Giuseppe Remuzzi, Direttore dell’Istituto Mario Negri, nonché, tra gli altri, anche il primario emerito dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo il dott. Fredy Suter.
Questo studio era già stato pubblicato su MedRxiv in versione pre-print, come infatti precisava già il prof. Remuzzi: “Pur essendo in attesa della pubblicazione ufficiale, abbiamo pensato di rendere noti i dati emersi alla comunità scientifica perché i risultati sull’ospedalizzazione sono di un certo interesse”.
La ricerca precedentemente resa disponibile in pre-print aveva il titolo “A simple, home-therapy algorithm to prevent hospitalization for covid-19 patients: a retrospective observational matched-cohort study” (tradotto: “Un semplice algoritmo [ndr. schema sistematico di calcolo] per il trattamento domiciliare di pazienti Covid-19 per prevenire l’ospedalizzazione: uno studio di osservazione retrospettiva”), ed era stata approvata dal Comitato Etico Centralizzato per tutte le sperimentazioni Covid-19 in Italia con sede presso l’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani, Roma (Parere n 263, 31 gennaio 2021) e registrato presso il ClinicalTrials.gov (NCT04794998).
Oggi troviamo questo testo, finanziata con una donazione della Fondazione Cav. lav. Carlo Pesenti (Bergamo – Italia) all’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS, su “EClinicalMedicine“, pubblicata da The Lancet, con il titolo “Un semplice algoritmo di terapia domiciliare per prevenire il ricovero in ospedale per i pazienti COVID-19: uno studio di coorte abbinato osservazionale retrospettivo”.
Fredy Suter, che per anni è stato primario della Unità di Malattie infettive degli Ospedali Riuniti, oggi primario emerito dell’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, aveva già dichiarato che circa 30 medici (Lombardia, Veneto e Abruzzo) seguivano questo protocollo ed avevano avuto, “con diverse centinaia di pazienti, percentuali di ricovero sempre bassissime, intorno al 2%”.
Anche Remuzzi diceva all’Huffpost: “…90% di riduzione dei giorni di ospedalizzazione e 90% di riduzione dei costi è una cosa che la comunità medica deve sapere secondo noi, subito. La durata dei sintomi non si riduce rispetto alla cura tradizionale, è uguale. Ma l’obiettivo secondario che ci eravamo prefissati è centrato: 2 ospedalizzazioni su 90 con la nostra cura; 13 su 90 nei pazienti trattati con cura tradizionale. Tutto questo è nello studio che adesso è pubblico, in preprint, in attesa di essere pubblicato ufficialmente su una rivista scientifica”.
“Lo studio in questione, infatti – come descrive l’Istituto Mario Negri – si propone, come altri studi attualmente in corso, per il trattamento domiciliare dei pazienti Covid-19, di presentare ai Medici di Medicina Generale una possibile cura precoce nelle prime fasi dell’infezione”.
Il Direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche era intervenuto anche alla fine di aprile nella trasmissione ‘Stasera Italia’ ed aveva spiegato quanto fosse importante non “perdere” i primi giorni dell’infezione di Covid-19, anche prima della comparsa dei sintomi. “Il virus si moltiplica nei primi giorni – affermava Remuzzi – dopo un periodo in cui non ci sono sintomi, ma il virus c’é già nel nostro organismo, si moltiplica un pochino, poi si moltiplica nei primi 6/8/10 giorni quando di solito non si faceva niente. Allora noi pensiamo invece che intervenire al primo sintomo sia importante per evitare l’evoluzione verso una cosa che gli inglesi chiamano ‘hyper inflamation’, che vuol dire eccesso d’infiammazione, alla quale segue poi un eccesso di risposta immune, ed è l’infiammazione e la risposta immune che creano danni a tutti gli organi (non soltanto ai polmoni), quando il virus in realtà non si moltiplica più all’interno del nostro organismo. Allora non vogliamo perdere i primi 10 giorni”.
Come specifica il comunicato dell’Istituto diretto da Remuzzi: “Nei primi 2-3 giorni, infatti, il Covid-19 è in fase di incubazione: la persona non presenta ancora sintomi, ovvero è presintomatica. Nei 4-7 giorni successivi, la carica virale aumenta facendo comparire i primi sintomi (tosse, febbre, stanchezza, dolori muscolari, mal di gola, nausea, vomito, diarrea). Intervenire in questa fase, iniziando a curarsi a casa e trattando il Covid-19 come si farebbe con qualsiasi altra infezione respiratoria, ancora prima che sia disponibile l’esito del tampone, potrebbe aiutare ad accelerare il recupero e a ridurre l’ospedalizzazione”.
Seguire questo approccio quindi offre vantaggi sia ai pazienti che al il sistema sanitario, mentre nel frattempo ricordiamo che gli studi clinici randomizzati in pazienti con Covid-19 curati a casa, condotti per confrontare l’efficacia di diversi regimi di trattamento, non erano ancora mai stati compiuti finora.
Lo studio retrospettivo matched-cohort – spiegano ancora dall’Istituto Negri – mostra quanto segue: “90 pazienti con Covid-19 lieve sono stati trattati a casa dai loro medici di famiglia, tra ottobre 2020 e gennaio 2021, secondo l’algoritmo proposto. I risultati ottenuti da questi pazienti sono stati confrontati con i risultati di pazienti che presentavano le stesse caratteristiche (età, sesso e comorbidità), ma che avevano ricevuto altri regimi terapeutici. Le analisi di questo studio sono state effettuate con il metodo intention to treat, cioè un’analisi statistica che, nella valutazione di un esperimento, si basa sugli intenti iniziali di trattamento e non sui trattamenti effettivamente somministrati”.
Segue ora uno stralcio del comunicato di aprile dell’Istituto farmacologico (IRCCS)
“Un trattamento accurato dei pazienti Covid-19 a domicilio da parte dei medici di famiglia, secondo il regime di raccomandazione proposto nel documento, ha avuto un effetto importante sulla necessità di ricovero in ospedale. Ciò si è tradotto in una riduzione di oltre il 90% del numero complessivo di giorni di ricovero e dei relativi costi di trattamento.
Il tempo mediano per la risoluzione dei sintomi principali è stato di 18 giorni per i pazienti trattati secondo le nuove raccomandazioni, mentre è stato di 14 giorni nel gruppo di controllo. Significa che trattare precocemente a casa non influenza in modo apprezzabile la durata delle malattie, quanto invece il suo fenotipo, e cioè l’insieme di tutte le manifestazioni cliniche, con una conseguente riduzione della necessità di ospedalizzazione.
Secondo quanto elaborato da Suter e Remuzzi, se la febbre non è l’unico sintomo presente, i farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) così come anche l’acido acetilsalicilico (aspirina), sono da preferirsi al paracetamolo. Quest’ultimo, infatti, non solo ha una bassa attività antinfiammatoria ma, secondo alcuni esperti, diminuisce le scorte di glutatione, una sostanza che agisce come antiossidante. La carenza di glutatione potrebbe portare ad un ulteriore peggioramento dei danni causati dalla risposta infiammatoria, che si verifica durante l’infezione Covid-19. Il beneficio offerto dai FANS nel ridurre l’infiammazione potrebbe, invece, tradursi in una minore progressione della malattia.
I FANS, che inibiscono in maniera selettiva l’enzima che produce i mediatori dell’infiammazione (chiamato ciclossigenasi-2 o COX-2), possono avere un miglior profilo benefici/rischi. Esempi di farmaci inibitori di COX-2 sono il celecoxib e la nimesulide (anche se meno selettivo rispetto al primo).
In questo modo, spiegano Remuzzi e Suter, si può prevenire la reazione infiammatoria che, se viene presa in tempo, è curabile a domicilio dal medico di famiglia. È proprio il medico di famiglia, infatti, che dovrà valutare lo stato di salute del paziente cercando di valutare la gravità della malattia e curandolo in modalità domiciliare fin quando possibile. In base all’evoluzione del quadro clinico, si deciderà poi la durata del trattamento.
Quando gli antinfiammatori non bastano a controllare la malattia, si passa ad altri farmaci ma non prima di aver fatto alcuni esami del sangue, con un prelievo a domicilio, per controllare: il numero dei globuli rossi e dei globuli bianchi, che danno un’idea della situazione immunologica; i livelli della PCR, o Proteina C Reattiva, per accertare l’andamento dell’infiammazione; i livelli di creatinina, albumina ed elettroliti per verificare lo stato di salute dei reni; i livelli del glucosio per la presenza di ipoglicemia e iperglicemia; i livelli degli enzimi epatici per controllare lo stato di salute del fegato; i livelli di D-dimero, PT, PTT e fibrinogeno per controllare la coagulazione del sangue”.
Andrea Ippolito