Qui è rinchiuso chi ha ucciso Giulia

Non dobbiamo salvare le donne: non ne hanno bisogno, sanno benissimo salvarsi da sole. Ciò che piuttosto bisogna salvare è una società moderna nella forma ma non nella sostanza

Arrivai che era appena successo. C’era sangue dappertutto in quella scuola: nell’atrio, sulle scale, nel parcheggio. Una lunga scia rossa a pochi metri dalle classi dove i bambini facevano lezione. Ricordo l’odore del sangue mischiato alla pioggia, alla segatura, a qualche prodotto che il personale stava usando per pulire. Un odore acre che mi rimase addosso per molte ore. Anche mentre scrivevo di quella storia. Un uomo aveva accoltellato la moglie dalla quale si stava separando nei locali di una scuola elementare. La donna stava accompagnando i figli a scuola.

Poco tempo dopo mi capitò di intervistare un tipo a casa sua. Mi stava raccontando una storia fatta di schiamazzi, e di illuminazione pubblica che saltava di continuo, se ben ricordo. Comunque, niente di interessante. Mentre stavo pensando alle parolacce che avrei detto a chi aveva passato al tipo il mio numero, entrò nel salotto una donna, presumibilmente sua moglie. Mi colpì la compostezza e il modo in cui si sedette su una sedia accanto alla poltrona del marito. “Buonasera”, mi disse. Non feci in tempo a rispondere che lui la fulminò con lo sguardo. Lei si irrigidì, i suoi occhi in meno di un secondo divennero spaventati, poi tristi, poi vuoti. E poi si alzò e se ne tornò da dov’era venuta, una stanza in fondo al corridoio. Lui si rimise a parlare come se nulla fosse, come se fosse stato interrotto da niente più che uno spiffero d’aria fredda.

Quando me ne andai, in quel momento non sapevo perché ma evidentemente i miei neuroni sì, ripensai al caso dell’accoltellamento a scuola.

Credo che sia la distanza tra il sangue e lo sguardo sprezzante il problema. Una distanza enorme, uno spazio sconfinato che cerchiamo di scardinare e di aprire come una cassaforte, nella speranza che la soluzione alla violenza contro le donne possa essere lì. Cosa c’è in quello spazio, chiuso e rinchiuso da questi uomini tra pareti a tenuta stagna? Retaggio culturale, dimostrazione di forza, patriarcato, violenza, potere, psicologia, sociologia, media, ignoranza, stupidità, arroganza, vergogna, repressione. C’è anche Filippo Turetta rinchiuso lì? Penso di sì. Perché se è vero che il femminicidio di Giulia Cecchettin presenta caratteri anomali rispetto alla stragrande maggioranza dei casi, allora è vero che lo spazio in cui si muovono gli uomini che odiano le donne è davvero enorme. Ed è trasversale; per età anagrafica, istruzione, estrazione sociale.

E se questo spazio è sconfinato, il problema che ci si pone davanti è altrettanto esteso sotto ogni punto di vista. Dimostrazione ne è il fatto che nessuno, ancora ad oggi, sembra aver trovato una soluzione, o quantomeno un argine ad uno tsunami che sembra non avere fine. Abbiamo pensato alle scuole, a lezioni cui nessuno presterebbe attenzione; abbiamo pensato a stupidaggini linguistiche riempiendo pagine e pagine con il/la premier. Proviamo invece a scomporre, analizzare, studiare.

Proprio i caratteri anomali dell’immane tragedia di Giulia potrebbero darci elementi utili alla causa. Così come i social, e la messaggistica istantanea di Whatsapp. Perché se la società si muove in quel senso, allora è giusto andare a cercare anche lì motivi, cause e soluzioni. Quante donne si sono riconosciute nella viva voce della ragazza, nelle corde che le tremavano, nella tensione, nel pensiero delle unghie mangiucchiate mentre si confidava con le amiche in un gruppo Whatsapp?

Giulia era in una stanza oscura; una stanza colma di paura e di violenza, non ancora fisica. Quando l’ambiente è diventato saturo, senza uno sfogo, senza una presa d’aria, tutto è esploso. Prima ancora che scardinare la cassaforte in cui gli uomini tengono rinchiusa la violenza mostruosa (e spesso senza campanelli d’allarme), dobbiamo puntare tutto sulla necessità di quello sfogo. Basterebbe un piccolo foro per lasciare entrare la luce e la speranza, e non far saturare l’ambiente in attesa della tragedia. Un foro che tutti possono scavare, donne e uomini, per tendere la mano con la voce, con un messaggio, con un segnale, un numero di telefono, con qualsiasi strumento oggi abbiamo a disposizione.

Non dobbiamo salvare le donne: non ne hanno bisogno, sanno benissimo salvarsi da sole. Ciò che piuttosto bisogna salvare è una società moderna nella forma ma non nella sostanza; un Paese futurista che ha alle caviglie troppi pesi che lo trattengono nel passato; una famiglia di mentalità aperta ma chiusa nei propri dogmi; una umanità capace di realizzare intelligenze artificiali generative, ma incapace di affrancarsi dalla più becera violenza che genera solo esseri, e non mostri, stupidamente umani.

Francesco Ferrigno

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