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L’attenzione che inciampa

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L’attenzione che inciampa

Costruire la memoria attraverso le pietre, per non dimenticare. È questa l’idea, diventata nel tempo ragione di vita, che ha spinto l’artista tedesco Gunter Demnig a dare il via, negli anni ’90 (la prima volta a Colonia nel 1995), a tentare un esperimento di costruzione della memoria con la posa della prima “pietra d’inciampo”. Un sampietrino ricoperto di ottone, impiantato nel terreno davanti alla soglia delle case dei deportati verso i campi di concentramento nazisti.

Un’iniziativa che, a partire dal gennaio 2010, si è diffusa anche in Italia, entrata a far parte di un grande circuito della memoria. Nel nostro Paese se ne contano oltre 2000, e, anno dopo anno, il loro numero continua ad aumentare, a dimostrazione della volontà e della necessità di ricordare tutti coloro che, per religione, etnia, orientamento sessuale o convinzioni politiche, sono diventati vittime della violenza nazista.

Inizialmente, si trattò, per Demnig, di “fare memoria” della deportazione dei rom e dei sinti, la più grande mai perpetrata ai danni di queste etnie, avvenuta a Berlino nel maggio 1940. Si era trattato, all’epoca, di un test che preludeva alla successiva deportazione degli ebrei.

Nel 1990, a fronte di chi negava che a Colonia fossero stati deportati 1000 sinti, Demnig prese la decisione di dedicare la sua vita e la sua arte al ricordo di tutti coloro che avevano conosciuto la stessa sorte, senza distinzione: politici, soldati, omosessuali, disabili, rom e sinti. Creò un lungo nastro di stoffa di dodici chilometri, che segnava il cammino percorso dai deportati dalle loro case alla stazione da cui sarebbero partiti per andare incontro al loro destino di morte. Quando il nastrò iniziò a deteriorarsi e a non risultare più visibile, gli venne l’idea delle pietre d’inciampo.

“Inciampo” non per far inciampare il passante, bensì la memoria. L’attenzione sul fatto che, dalle case dove abitavano, quelle persone si erano incamminate, senza saperlo, verso una sorte tragica.

Demnig continua, ogni gennaio, il suo pellegrinaggio per interrare le pietre in ricordo dei deportati. Non è stato facile, all’inizio, ottenere il permesso delle istituzioni alla collocazione dei sampietrini, e l’interesse della gente era molto scarso. Poi, a partire dal 2000, l’attenzione è cresciuta sempre di più, come anche il numero delle persone che assistevano alla posa delle pietre. L’impressione era che si fosse radicata la consapevolezza che i deportati avrebbero, in quel modo, trovato finalmente un luogo dove tornare ed essere ricordati per sempre.

Consapevole che siano troppe le vittime perché basti una vita a dedicare una pietra a ciascuna di loro, l’artista tedesco continua la sua missione. Fare memoria per lui è arte. Un’arte che non sta nella piccola scultura del sampietrino fine a sé stessa, ma nelle emozioni che sa suscitare, nel sentimento di riportare a casa chi non c’è più.

Viviana Rossi

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