Arriva la resa dei conti per il nuovo film diretto dal regista premio Oscar Paolo Sorrentino, che alla mezzanotte di sabato 21 settembre ha iniziato la sua opera di seduzione. Acclamato dalla platea, l’opera mondo ha terminato il primo weekend di proiezione al cinema: un film, tanto profondo da dover esser visto più volte per cogliere ogni sua accorta sfumatura nascosta. La nostra redazione ha partecipato all’anteprima di “Parthenope” al Filangieri di Napoli e, sedotta, si è concessa anche lei la libertà di parlarne, della libertà.
La nascita
E’ il 1968 quando Parthenope, la protagonista dell’omonimo film di Paolo Sorrentino, sembra emergere dalle acque con il peso di un’intera città sulla pelle. È Napoli, è bellezza, è libertà. Ma quale libertà? Nasce già grande, Parthenope, una bambina chiamata come la sirena che fondò Napoli, come la condanna a vivere un’esistenza al limite tra il visibile e l’invisibile. E’ bellezza e mistero, ma non di certo libera dalla proiezione degli sguardi, dai giudizi che le si attaccano addosso. Parthenope seduce e ammalia, eppure non invita mai a entrare veramente in lei, come se la sua essenza potesse essere percepita solo in superficie, mai toccata. Così è il mezzo del suo viaggio: una carrozza posta al centro della sua stanza. Ferma, immobile. Che riprende il suo moto solo quando si trova il modo di accedervi, per scoprirsi poi sempre in movimento, mai completamente radicata in un luogo o in una relazione: un senso di costante mobilità emotiva che l’accompagna per tutto il film, segnando il suo rapporto con gli altri.
La danza del corpo
Non è la prima volta che Sorrentino punta su un esordio cinematografico. Celeste dalla Porta (Parthenope) ha un volto disarmante. Il suo sguardo rapisce e trasporta per l’intera proiezione, i suoi occhi sono improvvisamente nostri. Eppure non ci sentiamo in grado di vedere. Sapessimo poi cosa significhi vedere, esattamente. Per ottenerne risposta, la ragazza vi dedica i suoi studi antropologici, si muove attraverso la vita con la bellezza come sua arma e sua condanna, attirando intorno a sé ammirazione e invidia, desiderio e avversione. Eppure, non sembra mai davvero toccata da ciò che vede, o da ciò che gli altri vedono in lei. Come se vivesse al di là dello sguardo, in una sfera in cui il vedere è solo un riflesso, uno specchio, una figura che danza muovendosi a onda lenta, come quella delle acque del mare. Del suo mare.
Il funerale del desiderio
Il desiderio è il grande enigma che Sorrentino ci presenta: il desiderio di amore, di comprensione, di una risposta definitiva. Eppure, quando quel desiderio si consuma, sembra che non resti nulla. Il sesso, ci dice Sorrentino, è il funerale del desiderio. È così? Siamo condannati a esaurire ogni cosa che desideriamo? Parthenope stessa si confronta con questa verità. I suoi uomini l’accusano di mancare d’intelligenza solo perché non si concede, come se il valore di una donna si misurasse nella sua disponibilità. E allora si chiede, come ci chiediamo noi: è possibile essere amati e rispettati al di là della bellezza? Essere desiderate anche con 40 anni in più. No di certo, furbacchiona. E così le donne, offese e giudicate, solo la sera, quando sono sole, trovano le risposte da dare agli uomini che le hanno umiliate. Una cultura misogina nascosta dietro la veletta di Flora Malva (Isabella Ferrari), che resiste a questa riduzione nei suoi atteggiamenti svampiti, ironici e complessi. Meravigliosi, come il suo inchino e un volto che si fa chiaro fra i vapori ineluttabili del giudizio.
Gli orrendi napoletani
E poi c’è Napoli, lo scenario vivo e dolente che sembra dare forma a ogni pensiero del film. È il “posto più bello del mondo” ma, paradossalmente, non lo è. La città non giudica, ci viene detto, ma ogni vicolo sembra sussurrare storie di speranza e disperazione. Un luogo che offre tutto e niente, una giostra di illusioni dove l’essere gioiosi è facile solo per chi è giovane e inconsapevole. Trattenuta e poi lanciata, l’attrice inorridita dalla città che l’ha partorita – una magistrale Luisa Ranieri nelle vesti di Greta Cool – con il suo monologo amaro sui depressi e inconsapevoli napoletani porta la frustrazione della sua gente verso la città, vista come intrappolata in un ciclo di autocommiserazione e fallimenti. Perché Napoli è il desiderio del bacio su una bocca che si scopre senza denti, di una perfezione vista da lontano, di un’alopecia nascosta sotto una parrucca, sotto la quale c’è la realtà di un Paolo Sorrentino che fugge da questi luoghi, e che tra le labbra di Greta Cool lascia comunicare sprezzante il suo addio, con un bel: cari orrendi napoletani, me ne torno al nord. Sipario.
La dissoluzione della Chiesa
Nel frattempo, Parthenope cresce. La maturità le riconosce negli amori giovanili un’illusione di spensieratezza, anche per suo fratello Raimondo, morto suicida per la sua prematura capacità di vedere la vita come fredda accettazione di ciò che sia, disingannata e priva del tassello della sua età. Raimondo (Daniele Rienzo) ha amato, ed è morto per amore. Gesù ha amato troppo ed è stato piegato dal suo stesso amore. Che smisurato, porta alla distruzione, alla dissoluzione. Al finto ciclo mestruale per simulare un miracolo, e al Vescovo (uno straordinario Peppe Lanzetta), corrotto e ambiguo, che consuma un atto sessuale con Parthenope: sembra una Santa, dice. Sacro e profano, due poli di attrazione e rovina, si scontrano nel momento in cui una goccia di sangue simbolico cade dall’ampolla, quasi fosse una lacrima, un pianto del San Gennaro caro ai napoletani per la vergogna della Chiesa. Una denuncia, questa, delle debolezze umane travestite da Fede, dalle ipocrisie del potere spirituale. E di un Sorrentino che non perde occasione per esasperare l’orrore della sua gente, spinta ai limiti della perversione morale.
L’essenza chiara della realtà
Ma mentre osserviamo Parthenope muoversi tra amori giovanili, illusioni e disillusioni, la frequente “a cosa stai pensando?” sembra essere rivolta a noi spettatori. Nel silenzio ci chiediamo a cosa sia servito quanto abbiamo vissuto. Se faccia tutto parte di un ciclo in cui cerchiamo di aggrapparci a qualcosa – amore, bellezza, desiderio – solo per scoprire che non resta nulla di duraturo. E in questo processo, ogni volta che Parthenope vorrebbe piangere, si trattiene, come se il pianto fosse un lusso riservato solo alla sacralità di una Chiesa. Cominciamo a capire che il professore (Silvio Orlando) aveva ragione, che iniziamo a vedere davvero solo quando “viene a mancare tutto il resto”. La perdita, l’assenza, sono l’essenza chiara della realtà, del guardarsi al di fuori per comprenderci veramente. Così, quando il tempo dell’illusione e del desiderio sarà finito, potremo finalmente vedere. E forse bere, per concederci ancora il lusso di fare promesse da ubriachi che svaniscono al risveglio. Perché senza il senno, il confine tra sogno e realtà si assottiglia, permettendoci di esprimere desideri e speranze che, da sobri, ci sembrerebbero impossibili. Così diremo grazie, un giorno, a Gary Oldman per averci avvisati in tempo che no, la bellezza non può soddisfare tutti i desideri, senza bisogno di impegno e di lotta. E l’incontro tra Parthenope e John Cheever sullo sfondo di una bellissima Capri ci sembrerà poetico come lui, come due navi nella notte che si incrociano per un instante. Un bacio, e via.
La fede calcistica
La fotografia di Parthenope è bellissima. Ha una cura femminile, come femmina è la protagonista e la direttrice della fotografia, Daria D’Antonio. C’è il bianco, l’arancio, l’azzurro del mare, di una città e di una squadra: il Napoli. Il colore di una forma di riscatto, una tregua dai pensieri profondi, un legame viscerale con una comunità. E’ il ritorno della protagonista avvenuto “Un giorno all’improvviso”, dopo una lunga permanenza a Trento. Dove di tempo ne è passato, ma Parthenope è ancora qua, a difendere la sua città e Sorrentino lo sa: l’inno del Napoli è quella speranza collettiva che, almeno per un istante, dà un senso a tutto. E forse è proprio in questa scena che il regista ci lascia con la sua risposta: a volte, non è necessario capire tutto, a volte basta credere in qualcosa, anche solo per un giorno.
Il viaggio
Questo film non si digerisce subito, si ferma allo stomaco, non riesci a non domandarti quale sapore o dissapore ingerito non sia sceso giù: sarà il viaggio nella bellezza e nella rovina, o la meditazione sulla fragilità e la forza di essere umani? Sarà per la vita che scorre accanto al dolore, o per una città che non smette mai di affascinare e ingannare? Sarà, forse, il desiderio che vive solo nell’attesa. L’unica certezza che abbiamo, è che Sorrentino ci consegna un’opera che non cerca di dare risposte, ma che invita a interrogarci sul nostro cammino, a fare le domande giuste, a guardare al di là del visibile, a cercare nel mistero ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Andate a guardare il film, e poi trovatelo. Vi sentirete grati per averlo fatto. E magari, chissà, ne riparleremo agli Oscar.
Sofia Comentale