Chi di noi, avendone la possibilità, sarebbe disposto a tornare indietro, dopo lo shock iniziale di aver perduto la propria casa e aver dovuto ricostruire la propria vita a causa di un sisma o di un’alluvione?

In tempi di cambiamenti climatici e di catastrofi naturali che ne sono la diretta conseguenza, non fa più meraviglia che alcuni luoghi rimangano cristallizzati nel tempo, come successe a Pompei dopo il terremoto del 79 d.C.

La città di Apice, nel beneventano, ha conosciuto lo stesso destino dopo il sisma dell’Irpinia del 1980, che svuotò completamente il vecchio centro abitato, facendolo diventare un borgo fantasma. Uno dei tanti, disseminati in tutta Italia, di cui non resta quasi più nulla e che si possono soltanto immaginare, o che sono stati rivelati, nel tempo, da scavi archeologici che hanno permesso di ricostruirne le origini e restituirgli un ruolo nella storia del nostro Paese.

Ciò che è rimasto di Apice vecchia racconta di un’epoca remota in cui la città era diventata un accampamento romano durante i lavori di ampliamento della via Appia, un’operazione di ampio respiro che richiese quasi duecento anni per essere portata a definitivo compimento, e che ampliò considerevolmente il territorio di Benevento e la zona intorno ad Apice, a 15 chilometri di distanza.

Fu nel 1962 che la città cominciò ad assumere la fisionomia di un luogo abbandonato quando, a causa di un evento sismico, fu disposta l’evacuazione del paese. Solo una parte degli abitanti rispettarono l’ordinanza, mentre gli altri decisero di rimanere nelle proprie case finché il drammatico evento del 1980 costrinse tutti ad un massiccio trasferimento in un’area chiamata “Piano di ricostruzione Apice”, l’odierna Apice Nuova.

Il nuovo paese inizio a prendere forma a metà degli anni Sessanta, inizialmente senza tenere conto di criteri diversi da quelli che richiedevano la costruzione di edifici anonimi e uguali l’uno all’altro, dovendo far fronte ad una situazione di grave emergenza. Solo in un secondo momento fu elaborata una vera e propria strategia urbanistica che, tenendo conto delle esigenze, delle aspettative e dei gusti di chi doveva viverci, ha reso la città quella che è ancora oggi: non il risultato della sostituzione di qualcosa che non c’è più, ma della volontà di dar vita a una nuova realtà urbana e di ricreare un tessuto sociale memore del suo passato.

Un lungo processo di adattamento, quello degli apicesi, reso difficile dal legame con le proprie radici e dalla determinazione a continuare a vivere e lavorare nella città vecchia ‒ dove erano concentrati tutti i servizi essenziali a disposizione della comunità, dalla farmacia, all’ufficio postale, al salone di barbiere ‒ finché è stato possibile, circondati da un paesaggio collinare che ha favorito da sempre lo sviluppo dell’agricoltura, rimasta, ancora oggi, l’attività principale degli abitanti di Apice.

La posizione strategica su una collina a 250 metri di altezza, lambita da tre fiumi che, in epoca romana, erano navigabili e crocevia di scambi commerciali che resero la città teatro di contese e battaglie, ha pagato il prezzo dell’abbandono quando la geologia del territorio ne ha svelato la precarietà.

Per andare avanti, si è spesso costretti a lasciarsi qualcosa alle spalle, in alcuni casi senza voltarsi indietro, in altri restando legati al passato, sentendo il peso dell’incertezza del futuro. Se quanto è accaduto a Pompei ha permesso, a distanza di secoli, di conoscere meglio la vita e la storia dei nostri antenati, lo stesso potrebbe accadere a città come Apice, diventando, nel tempo, oggetto di interesse archeologico e di recupero delle nostre origini.

Viviana Rossi

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