Due aprile, Giornata mondiale per la consapevolezza sull’autismo. Anche quest’anno ‒ da quando, nel 2007, l’Assemblea Generale dell’ONU l’ha istituita allo scopo di promuovere la ricerca, il miglioramento dei servizi, la lotta alla discriminazione e all’isolamento delle persone che vivono questa condizione ‒ questa data ha suscitato riflessioni e considerazioni sul valore della parola “consapevolezza”.
Perché non può bastare prendere atto dei dati diffusi dall’Osservatorio Nazionale, secondo i quali, in Italia, un bambino su 77 (di età compresa tra i 7 e i 9 anni) rientra nel cosiddetto “spettro autistico” con una prevalenza dei maschi, interessati da questa condizione 4,4 volte in più rispetto alle femmine. Come non può bastare rendersi conto della necessità di adottare politiche sanitarie, educative e sociali destinate a potenziare i servizi e garantire risorse sempre più adeguate a supportare le famiglie, per mitigare gli effetti di pregiudizi e stereotipi.
Perché, se è vero che “da una parte vi sono le persone che vivono la condizione dello spettro autistico, dall’altra ci sono quelle che devono modificare qualcosa di loro stesse, della loro routine, della loro quotidianità, per far sì che una società realmente inclusiva sia messa in atto, non solo a parole, ma con i fatti” afferma Luigi Mazzone, neuropsichiatra infantile del Policlinico di Tor Vergata di Roma.
“Il punto siamo noi neurotipici: fin quando la visione sarà semplicemente unilaterale, cercheremo di omogeneizzare culturalmente tutta la società attraverso i nostri standard culturali, cognitivi e neuropsicologici che hanno delle caratteristiche differenti e che dal nostro punto di vista presentano dei deficit, ma che per altri possono essere una risorsa. E allora, l’integrazione di questi concetti potrebbe rendere una società davvero inclusiva e smettere di far sentire ai margini alcune famiglie o alcune persone”.
Già, inclusione. Molti si dimostrano comprensivi, spesso a parole e pur con le migliori intenzioni, nei confronti di persone e famiglie che fanno parte dell’universo dello spettro autistico, e che, in assenza o scarsità di motivazione e di coinvolgimento in progetti sociali realmente inclusivi, cedono alla paura del futuro e all’angoscia del sentirsi isolati, cedendo al più facile e immediato richiamo delle terapie farmacologiche.
Anche per questo bisognerebbe sempre ricordare che la motivazione interessa tutti, non solo le persone e le famiglie che vivono una condizione di fragilità a causa dell’autismo, considerata erroneamente una malattia per la troppa diffidenza e disinformazione che, ancora oggi, circondano questa dimensione “altra”, spesso difficile da accettare. Con tutte le aggravanti del caso.
“Consapevolezza dell’autismo non significa pietosa accettazione, né comodo sostegno morale, né apprezzamento ‘social’” afferma lo scrittore e giornalista Giovanni Taranto (autore della saga letteraria del capitano Giulio Mariani, Grand Master di Taekwondo e da sempre impegnato come insegnante in ambiti sociali e nelle scuole). “Si tratta di affacciarsi su un altro universo, di cercare linguaggi per comunicare, e non solo concetti, ma sentimenti, sensazioni, stati d’animo, vita ed esperienze condivise con chi fa parte di quell’universo. Si tratta di costruire un ponte verso una sponda per molti versi sconosciuta e insondabile, senza timori, con rispetto e accettando la sfida di mettere in campo una volontà di empatia che probabilmente potrà non essere ricambiata. Bisogna voler amare nel vero senso della parola, senza pretendere nulla in cambio, a volte nemmeno la semplice sensazione di essere ricambiati. Senza aver paura. Senza smettere mai di dare e comunicare, tentando, incessantemente, nuove strade per arrivare al cuore prima che alla mente, attraverso sentieri insospettabili, ma che possono rivelarsi sorprendentemente efficaci”.
Viviana Rossi










