Stefano Crispino, in arte Stre, è uno di quei talenti che non si scoprono per caso. Vincitore di un riconoscimento della Regione Campania per le eccellenze del territorio, Stre non è una semplice rivelazione, ma un artista in costante crescita, capace di lasciare il segno tanto nella musica quanto nella regia.
L’abbiamo conosciuto inizialmente attraverso il brano “Alzheimer”, un pezzo dal forte impatto sociale, ma reso unico da una sonorità coinvolgente e originale. Poi l’abbiamo incontrato come uomo, durante questa lunga intervista in cui ha risposto con pazienza e profondità alle tante domande che gli ho posto.
Nel suo repertorio musicale si percepiscono l’umanità e il brio che lo contraddistinguono, ma anche una vena malinconica che non si contrappone all’allegria, bensì la affianca. Come nell’eterna tensione tra Eros e Thanatos, l’amarezza diventa forza, energia primigenia che segue il ritmo incessante del tempo.
Quella che segue è un’intervista corposa, intensa, che offre uno sguardo autentico su una delle eccellenze più interessanti del panorama musicale e registico italiano
Parliamo del tuo percorso, che ti ha portato pochi giorni fa a ricevere un riconoscimento dalla Regione Campania. Quali emozioni hai provato?
È stato un momento davvero bello. Ricevere un riconoscimento dalla mia Regione è stato come un abbraccio da casa, da quei luoghi che mi hanno cresciuto e ispirato. In un Sud dove molto spesso si corre al Nord per trovare fortuna, il coraggio più grande è restare e sapere che, quando ci credi davvero, qualcosa può accadere anche qui — e sapere che qualcuno, ogni tanto, valorizza questa scelta è una gioia. Sentirsi dire “bravo” dalla propria terra ha avuto un valore umano ancora prima che artistico. Inoltre, è un aiuto concreto per le spese del mio prossimo disco. In un’epoca in cui pochissime persone scelgono di “finanziare” i sogni degli altri, questo gesto ha un valore enorme, pratico e simbolico. Ne sono onorato e grato.
Come si è evoluta la tua musica nel corso degli anni?
Ho sempre sentito l’esigenza di raccontare. Quando avevo una band, raccontavo soprattutto ciò che mi circondava; oggi, invece, da qualche anno sento il bisogno di raccontare di più me stesso e quello che provo. Da bambino facevo produzioni dance con un software trovato come sorpresa dentro una scatola di cereali, poi ho attraversato una fase rap, sono stato batterista punk per anni e successivamente frontman e chitarrista in un gruppo pop punk. Da quando sono solista, ho imparato a non pormi più confini musicali. Ho tanta voglia di libertà e mi sono preso il tempo necessario per conquistarla, lavorando con calma ai prossimi brani, che stanno per uscire dal buio della mia stanza per arrivare nelle orecchie degli ascoltatori. Mi fa molto piacere che ci sia attesa da parte di tante persone per quello che faccio, ora sento anche la responsabilità di farlo senza perdere autenticità ma ho capito che se resti te stesso puoi esserlo a prescindere dal vestito musicale che indossi.
Il mondo sta cambiando rapidamente. In che modo è mutato il tuo sguardo su di esso e il tuo punto di vista da regista?
Il mio sguardo oggi è più attento ai dettagli, forse proprio perché noto che non se ne da più così tanta importanza. Da regista, ho capito che raccontare una storia non è solo decidere “cosa mostrare”, ma anche cosa non mostrare. In un mondo sempre più caotico e digitale, mi interessa la delicatezza, la memoria, la lentezza delle emozioni vere. Il cambiamento globale lo sento addosso, ma provo a tradurlo in sensazioni immaginifiche, più che in denuncia. Più che andare “contro” alle brutture voglio far vedere cosa sento in questo mondo di brutture, cercando di portare qualcosa che contenga non dico bellezza (quella è il pubblico a giudicarla “tale”) ma almeno passione, tanta passione.
Hai scritto un brano sul morbo di Alzheimer. Esiste un modo diverso di raccontare questa esperienza, sia dal punto di vista narrativo che musicale?
Assolutamente. Le mie canzoni non nascono a tavolino ma come gesto istintivo e quando ho scritto “Alzheimer” inconsciamente forse volevo evitare di cadere nella didascalia o nella retorica. Volevo raccontare l’Alzheimer non solo come malattia, ma come metafora del tempo che sfugge e che spesso non sappiamo cogliere nel suo presente, troppo spesso impegnati a rimuginare troppo sul passato o ad avere ansia del futuro, il malato di Alzheimer metaforicamente vive molto più nel presente degli altri ed è una cosa che spesso ci scordiamo di fare. Musicalmente penso che sia più stimolante raccontare qualcosa di triste in un mood allegro, è una sfida che mi da più soddisfazione quando scrivo e, in generale, ho capito che mi appartiene molto, mi assomiglia di più. E la verità nella musica, per me, è tutto.
“Vivo” e “Uscire” sono brani che ti hanno dato molte soddisfazioni e fanno parte del tuo nuovo disco Carpe Die. Esiste un metodo per scrivere canzoni significative, oppure è frutto di un’ispirazione improvvisa?
Come sottintendevo poc’anzi per me un metodo vero e proprio non c’è, ma c’è una disciplina emotiva. C’è un assecondare dei momenti brutti e lasciarsi trasportare da essi, non evitare il dolore ma farci un grande tuffo dentro (per uscirne poi un po’ più rinfrescati). Io scrivo maggiormente quando sento di avere qualcosa da dire davvero. A volte arriva d’improvviso, altre volte mi siedo al piano o apro Logic senza idee, e piano piano qualcosa prende forma. A volte semplicemente so che è il momento giusto per scrivere, come se qualcosa stesse maturando in me da sola.“Vivo” è nata un po’ così, come un tentativo di fermare l’ansia di un momento felice e triste assieme. “Uscire”, invece, è stata una liberazione in un momento un po’ frustrante, mi ha aiutato a divertirmi in una sera che forse avrei passato a tormentarmi dai pensieri.
Qual è il tuo rapporto con la città di Napoli? Come si è evoluto nel tempo questo legame?
Napoli è la mia radice e il mio paradosso. È un posto che sa essere feroce e dolcissimo allo stesso tempo. Da ragazzo l’ho sentita stretta quasi sempre, a volte anche distante, spesso anche nemica, poi ho capito che era una madre che mi lasciava sbagliare per farmi crescere. Oggi, Napoli rappresenta la mia voglia di non arrendermi, il cuore di quello che faccio, anche e soprattutto perché non la nomino mai esplicitamente. Non a caso non si vede mai la Napoli da “cartolina” nei miei video, non mi interessa raccontarla come fanno in molti, mi interessa di raccontare le mie sensazioni scaturite da vivere qui, dove tutto è bellissimo e difficilissimo.
Se non avessi fatto musica a Napoli, in quale altra città del mondo ti sarebbe piaciuto vivere?
Più che in una città specifica mi sarebbe piaciuto vivere, in generale, in Inghilterra. Anche solo per essere madrelingua inglese. Amo molto quella lingua: ha una musicalità che rende le canzoni subito più accattivanti, internazionali, universali. Ho scritto alcune canzoni in inglese, ma non le ho mai cantate in pubblico. In fondo, la verità è che sono italiano — perché dovrei scrivere in una lingua che non è la mia? A volte mi sembrerebbe solo di scimmiottare la musica che amo, e non è quello che mi interessa. Non diventerò Freddie Mercury, ma almeno potrò dire di aver lasciato al mondo la mia “verità”. Con l’italiano, oggi, sbarcare il lunario è diventato quasi impossibile. Penso che se fossi nato lì, avrei avuto stimoli diversi — magari più opportunità, o semplicemente un’altra prospettiva. Ma allo stesso tempo mi chiedo: forse la mia scrittura sarebbe cambiata, forse certe cose che scrivo qui avrebbero perso intensità. Alcuni pensieri, alcune canzoni, nascono dalla frustrazione, da un certo tipo di mancanza. È difficile scrivere cose davvero belle quando si sta bene.
Come è nata la tua storia d’amore con la musica e con la regia?
L’amore per la musica è nato sin da bambino, influenzato dalle musicassette di mia madre che trovavo a casa e ascoltavo a ripetizione, dai concerti che si tenevano sotto casa negli anni ’90, dai video musicali in TV. L’amore per la regia è nato anche negli stessi anni, con la passione per il cinema, da piccolo guardare i film in TV mi lasciava folgorato, incantato e questa cosa è rimasta intatta. Ho girato il mio primo “corto” da bambino in stop motion con i miei giocattoli, senza nemmeno sapere cosa fosse la stop motion (pensavo fosse addirittura una mia idea ahah). Mi piaceva inventare storie, lo facevo anche con i giocattoli, tra l’altro sono rimasto un collezionista di giocattoli quindi sono passioni che non mi sono mai passate ma che, anzi, mi tengono vivo. Un videoclip, una videocamera, e la sensazione che anche le immagini potessero cantare. Oggi spesso non riesco più a scindere le due cose. Scrivo canzoni come fossero cortometraggi e penso i video come fossero canzoni.
C’è un libro o un film che consideri una pietra miliare per la tua creatività?
Sono sempre stato molto più appassionato di cinema che di lettura, anche perché mentre leggo mi immagino comunque un film, quindi a quel punto preferisco direttamente guardarlo. Se dovessi indicare un solo film come pietra miliare per la mia creatività, sarebbe impossibile: ce ne sono diversi che mi hanno davvero cambiato la vita. Sicuramente Nosferatu del 1922, Nightmare Before Christmas, Toy Story, La donna che visse due volte, Edward mani di forbice, La casa, Halloween, Shining e Psycho. Ognuno di questi, in modi diversi, ha acceso qualcosa in me — immagini, atmosfere, ossessioni.
Qual è il tuo prossimo sogno nel cassetto?
Più che sogni, ho obiettivi. I sogni spesso li lascio a chi si accontenta di immaginarli: io preferisco costruirli. Il mio prossimo obiettivo è finire il disco a cui sto lavorando e, più avanti, partire per un tour che mi faccia girare tutta l’Italia. Vorrei portare la mia musica su alcuni palchi di festival dei quali sono fan. E poi c’è anche un lato più personale: vorrei riuscire a vivere solo di quello che amo fare, senza dover continuamente lottare per giustificare una scelta di vita creativa (e cretina, sicuramente). Spero anche tra tanti anni di dirigere un mio progetto filmico più ambizioso ma questa è una cosa che voglio fare molto più avanti.
Pietro Nicosia