Lo sapete: a me il calcio interessa poco. Rispetto chi lo gioca con cuore puro e chi lo ama allo stesso modo, ma aborro certe abnormità che quel mondo ha creato.
Non sono uno da stadio. Il pallone non l’ho toccato quasi mai. Non mi piaceva. Questo ha fatto di me uno “strano” fra i ragazzini di allora. Ma non gliene ho mai voluto.
E non ho certo intenzione di passare per tifoso proprio adesso, solo per attirarmi qualche simpatia. Non lo sono. Neppure oggi che tutti si dipingono il cuore di azzurro, perfino gli snob che “…il calcio?” e storcono il naso.
Ma bisogna dire pane al pane e vino al vino. E quindi onore al Napoli. Che ha fatto il “non miracolo“. Perché non di miracolo si è trattato. Ma di lavoro, convinzione, sacrificio, battaglie. Coi nemici di fuori e quelli di dentro.
Non è San Gennaro che ci ha messo la mano. Non è stato il suo il sangue del prodigio. Ma quello “buttato” (col sudore, e a volte con una buona dose di “chitemmuorti…”) dall’intero team degli azzurri del Golfo.
Tanto di cappello agli uomini del Ciuccio. Non ai ciucci che hanno distrutto e danneggiato le città per festeggiare, lasciando pure una scia di feriti e addirittura un morto.
E, a proposito di città, e di quanti nel Napoli e in Napoli non credevano, sicuramente io non sono il più adatto a parlare di tattiche, classifiche, moduli e schemi a uomo o a zona. Dribbling e cross non ne so fare. Non faccio neppure parte del popolo di sessanta milioni di commissari tecnici che guarda e commenta le partite.
Io vivo di parole. Basate sui fatti. E senza sconti. E allora consentitemi di dire quattro parole (quattro…) a quanti del Napoli e di Napoli hanno dubitato.
A quanti hanno da sempre l’abitudine di guardarci dall’alto in basso, di considerarci sconfitti in partenza, di bollarci perennemente come quelli che “se non li aiuta la fortuna non sono capaci”, e si ostinano a immaginarci a fare la “controra” col mandolino accanto, dopo aver accuratamente scansato per l’ennesima volta la voglia di lavorare.
In futuro, forse, farebbero bene, a ricordarsi che una città come il nostro capoluogo ha le radici e il genio della filosofia greca, ha saputo superare e “assorbire” il meglio da invasioni di ogni tipo, è riuscita a venir fuori arricchita da infinite dominazioni, ha affrontato ed è risorta da eruzioni e terremoti.
È quella che, in Quattro giornate, ha cacciato la Wehrmacht di Hitler tirando pure il cuore contro le SS, non solo molotov e bombe a mano. Resiste alla camorra, alle mafie, al malaffare e alla mala politica.
Sopravvive a decenni di spoliazione sistematica di posti di lavoro, risorse e opportunità che, chissà perché, finiscono sempre altrove mentre una narrazione ad hoc racconta a tutti che noi “rubiamo” i soldi del Nord.
E sì: se capita “quelli di Napoli” sanno pure mangiarsi a morsi la vita sul terreno di uno stadio e prendersi l’ennesimo scudetto. Al cardiopalmo. Perché noi viviamo di emozioni, non di sicurezze: siamo quelli che hanno passato millenni a doversi arrangiare. Improvvisare, adattarsi e raggiungere lo scopo.
Noi siamo figli di un vulcano. Forse, come il Vesuvio, a volte siamo quiescenti. Ma accumuliamo energia. Che sa anche essere esplosiva. Siamo quelli della lava nelle vene e della “capa tosta” come il basalto. Soccombiamo, a volte, solo a noi stessi. Come le colonne eruttive. Ma da quel collasso, poi, sappiamo far nascere mondi nuovi, e fertili, come le pendici su cui nasce il Lacryma Christi.
Non ci sottovalutate. Mai.
Giovanni Taranto