«Gli esseri umani sono…»: il silenzio di Gi-hun e la domanda che Squid Game lascia a noi

«Non siamo cavalli. Siamo esseri umani. E gli esseri umani sono…» Poi, il silenzio. E infine, l’azione. La più potente tra le risposte possibili. E’ ormai trascorsa una settimana esatta dal lancio della terza stagione di Squid Game, riuscita a diventare la prima serie al mondo a raggiungere il primo posto in ogni Paese in cui Netflix è disponibile, per la straordinaria capacità degli autori di utilizzare un linguaggio visivo, emotivo, narrativo tale da costringerci a guardarci allo specchio. Liberi dall’allerta spoiler, questa recensione promette di analizzare proprio quell’immagine riflessa.

«Gli esseri umani sono…?»

Nel mondo disumanizzato dei “giochi”, dove la sopravvivenza è il solo obiettivo, l’uomo si mostra per ciò che è: egoista, affamato di denaro, crudele. Ma anche capace di bontà, sacrificio, tenerezza. La serie ci racconta che siamo entrambi: il predatore e la preda, il carnefice e il salvatore, la violenza e la carezza. Siamo complessi, contraddittori, capaci di distruggere e di costruire, di mentire e di amare.

Siamo ciò che ha spinto l’autore della serie, Hwang Dong-hyuk, a spiegare perché ha interrotto la frase di Gi-hun. Non perché mancasse di parole, ma per rispetto della complessità umana: «Gli esseri umani sono troppo complessi per essere definiti in un’unica frase. Ho voluto che fossero le azioni di Gi-hun a parlare», ha detto. Concorde, l’attore Lee Jung-jae (giocatore 456): «Se avessimo detto tutto, lo spettatore avrebbe chiuso la storia. Invece, l’abbiamo lasciata aperta. Vi chiediamo: voi, come lo vedete il mondo?».

001 – «…complessi»

Fin dalla prima stagione, Squid Game ha posto il proprio sguardo sul capitalismo estremo, sulla disparità sociale, sull’umiliazione della marginalità. Ma è solo nella terza stagione che “il gioco” diventa la simbolica trincea tra ciò che è umano e ciò che lo disumanizza. Ci riesce, mettendo in scena modalità strutturate di controllo dell’individuo, tutte drammaticamente attuali e necessarie a mostrare quanto la manipolazione della psiche e della percezione possa esprimersi attraverso una narrazione fulgida di simbolismi.

002 – «…egoisti»

«Gli esseri umani sono…»: il silenzio di Gi-hun e la domanda che Squid Game lascia a noi

Le tute numerate, l’uniformità, la negazione del nome. I partecipanti sono resi intercambiabili, anonimi. Il colore delle tute richiama quello delle divise scolastiche coreane: la scuola come primo spazio in cui l’individuo viene “normalizzato”, reso conforme. L’identità, azzerata, fa sentire i giocatori al pari degli altri, liberi dalle catene gerarchiche e quindi autorizzati ad agire per il solo interesse personale.

Gi-hun è ormai consapevole: è diventato ciò su cui un tempo scommetteva. Un cavallo. Un corpo in gara. Un oggetto su cui puntare. «Tu scommettevi sui cavalli. Noi scommettiamo sugli uomini», gli rivela il Front-man, in una sola battuta nella quale si condensa l’intero impianto critico della serie: la riduzione dell’essere umano a performance, la sua trasformazione in spettacolo, in commodity, in cifra utile all’intrattenimento e al profitto.

003 – «…avidi»

L’avidità, nella logica del gioco, è il carburante. Viene addirittura legittimata attraverso il meccanismo della votazione democratica. I giocatori possono scegliere di interrompere il massacro — eppure, nella stragrande maggioranza dei casi, votano per proseguire. La possibilità di trasformare le vite altrui in banconote sospese nel cielo li rende ciechi al pericolo e sordi alla coscienza. Non basta la frase latina “Oggi a me, domani a te” scritta sulle pareti del dormitorio, né centinaia di milioni. Non bastano nemmeno i miliardi: la sete di ricchezza è insaziabile, e li spinge a sacrificare chiunque pur di restare in gara.

004 – «…disumanizzati»

«Gli esseri umani sono…»: il silenzio di Gi-hun e la domanda che Squid Game lascia a noi

La messa in scena della morte, l’eleganza coreografica dei giochi, la presenza voyeuristica dei VIP — tutto contribuisce a rendere la tragedia tanto estetica da divenire intrattenimento. Addirittura, gli spettatori in poltrona, delusi dalla resistenza emotiva dei partecipanti, decidono di alzare ulteriormente l’asticella della crudeltà. Introducono una neonata come nuova giocatrice, nata solo poche ore prima in quelle stesse mura sanguinose. Sanno bene che non ha alcuna possibilità di sopravvivere. Ma è proprio questo il punto. Vogliono vedere fin dove possa arrivare la disumanizzazione.

005 – «…eppure amorevoli»

In questa stagione, però, questa piccola creatura (realizzata, ahimé, in CGI), è il primo simbolo di rinascita in Squid Game. Nessuna guerra vinta con le armi, solo un’umanità fragile ma intatta, affidata ad un futuro che gli autori hanno ben saputo rappresentare sullo schermo. Nella scena finale, Gi-hun (giocatore 456) resta solo con la bambina, agli antipodi di una torre. Da un lato lui: il passato, il grido delle anime sacrificate. Dall’altro, lei: ancora incapace di comprendere i pericoli del gioco, pura e inalterata dalle dinamiche di sopravvivenza.

«Gli esseri umani sono…»: il silenzio di Gi-hun e la domanda che Squid Game lascia a noi

Gi-hun dà inizio all’ultimo turno, uno dei due dovrà morire. Realizza che il fallimento sociale arriva quando si perde ciò che più caratterizza la nostra specie: l’umanità. Bacia la bambina e si suicida, sotto lo sguardo dell’élite globale che pur consumando la miseria dei più poveri, per la prima volta, resta in silenzio. E quel silenzio è politico.

006 – «…altruisti»

Quando, prima di cadere nel vuoto, Gi-hun si rivolge a noi dicendo «Non siamo cavalli», rompe la quarta parete. Siamo noi, gli spettatori, i veri VIP. Abbiamo guardato, pianto, giudicato, tifato. Abbiamo scelto i nostri favoriti, ignorato i “numeri secondari”, come se la loro morte fosse una necessità narrativa. E in quel momento, ci interroga: chi controlla il nostro giudizio? E cosa dice di noi?

Nella serie, i legami affettivi, la paura, la speranza, il senso di colpa diventano strumenti di controllo. Se riesci a emozionare qualcuno, puoi orientarne le scelte, manipolarlo, portarlo a distruggersi. Ecco che il suicidio del giocatore 456 si staglia quindi come atto di resistenza. Rifiuta la vittoria se fondata sulla morte di un innocente. Rifiuta la logica della selezione, della competizione estrema, del “vince il più forte”. Sceglie, invece, di sacrificarsi per il futuro e far vincere il domani, incorrotto e non deviato dal capitalismo.

Cosa sarebbe peggio, vivere da mostro o morire da brav’uomo?

Ora, della frase incompiuta, abbiamo la risposta. Essere umani vuol dire: scegliere. Significa opporsi alla disumanizzazione. Significa dire “no” quando il mondo ti chiede di diventare un mostro. Significa scegliere di non correre come cavalli, ma di di proteggere, di sacrificarsi, di amare. Laddove tutto spinge alla competizione e alla crudeltà, bisogna fermarsi, voltarsi indietro, tendere una mano, anche ad un passo dalla salvezza personale (grazie, giocatrice 120).

«Gli esseri umani sono…»: il silenzio di Gi-hun e la domanda che Squid Game lascia a noi

Il gioco continuerà, la logica resta intatta. Ma qualcosa si è incrinato, ed è la percezione. Gli esseri umani non saranno mai buoni o cattivi in assoluto. Ma saranno sempre liberi di scegliere. E questa libertà — di distruggere o salvare, di vendere o proteggere, di uccidere o morire per qualcuno — è ciò che ci rende davvero umani. Il male non è inevitabile. Il bene non è garantito. Ma entrambi sono sempre possibili. E questo, anche se fragile, è il nostro riscatto. Non dimentichiamolo mai.

Sofia Comentale

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