La poetessa e scrittrice di Pescara Tania Santurbano (nella foto) ha pubblicato, a distanza di una anno, la sua seconda raccolta di poesie dal titolo “Juliet nel ruere e i sette peccati”, edizioni Tracce 2015.
Con prefazione del celebre autore italiano Davide Rondoni, la poetessa marchigiana sembra continuare la sua scalata verso l’abisso, iniziata con ”Il Guardiano di Aiseop”, percorrendo gradini delicati e struggenti nella loro profondità. Una crestomazia piena di ortensie e viole del pensiero, un urlo silente ed assordante al cielo, ove si scorge, nelle figure pregne di corporalità e di odore umano, di vizio ed oblio, il frammento di una qualche, pur disturbata, divinità.
L’assoluto incarnato nella miseria dei gridi lacrimevoli e spietati, l’essenza ultima nella dannazione, l’adorazione di chi sa scorgere, sapientemente, la rosa nella croce degli spiriti spersi, violati, trafugati, spietatamente gettati ai margini dell’esistenza comune e stanca.
E c’è una luce penetrante e furente, uno sciame focoso di parole, che non vanno lette ma gettate giù con disincanto eterno, giungendo nelle profonde viscere della nostra grazia perduta, divorate come rotoli spersi dal sapore di fiele e assenzio, veleno della tentazione è sublimazione della nostra anima. L’anima urbana che si cela negli arzigogoli non dosati ma completi e penetranti ad ogni tratto di penna, scritti a cui ci si deve avvicinare con la delicatezza che merita l’assoluto per sorbire la profondità del suono e della ritmica che scuote e lacera ogni nostra certezza, ponendoci nella perdizione austera, umile e santificata, liturgia orgiastica dell’uomo mal orientato nei guazzabugli del suo male assoluto, della sua vertigine tracotante d’infinito.
Personaggio centrale Juliet fuggevole per maledizione, ed il suo altrettanto maledetto Romeo, sotto l’ombra di un canto che non è d’usignolo ma di allodola, ove l’alba è ben lontana, ancora, ove furtivi ci si trova perdendosi su rive d’oblio, respirando una morte strozzata che si connota come l’ultima speranza di trovare noi stessi.
Una Juliet in ruina, cacciata negli abissi per la sua luce immensa che è l’amore, che sceglie l’inferno al limbo e la sua non è neanche una scelta ma una necessità dettata da un amore assoluto.
Ed è rovina e delizia l’amore cantato, il Dio che chiude le nuvole e bisbiglia distante per non farsi sentire dagli uomini, lo stagno che delira d’essere mare, lo stillicidio di un tramonto inoltrato. Quale salvezza? quale senso? Si è assassini o si è salvezza? L’ Altissimo ed il Cristo, il sacrificio, una lacrima divina ed impotente nella sua onnipotenza, un amore per chi ama al punto di morire, di rinunciare a sé, di vivere ai margini di un sistema, di una vita, di una realtà già data per rata, di una lotta fine a sé per ritrovarsi. Un fluire di Erinni che scrutano con sguardo scevro, ma esorcizzano, poi, Eumenidi, la sofferenza.
Amare cristo, amare i cristi urbani e non, amare l’essenza femminea di cristo, la Maddalena, la più sensibile, la più pronta al sacrificio, amare il divino che c’è nell’uomo, ma con disobbedienza, restando fedeli a sé stessi. “La macchia del peccato originale è l’attimo di Cristo/ c’è forse differenza tra Cristo, cielo e croce”, questa la domanda, questo il racconto delle umane miserie, delle ragazze dimenticate ai bordi del marciapiede della loro esistenza, questa la salvezza? Cadere, tradire per trenta volte al suono di trenta squille, maledire ed essere maledetti.
La donna angelo scende dal cielo e cerca l’uomo, vaga come Lilith tra nebbie e marosi, rinuncia alla sua promanazione divina per l’uomo, i suoi fuochi sono accesi e penetranti, il suo sguardo furente, la sua bocca di dodici rose variopinte. Maledetta più di Eva cerca l’uomo, trova l’uomo, brama l’uomo. Alfine ama a tal punto questa tenera e terribile creatura che si incarna e ne sente il dolore, e divina lo sente a tal punto da divenire ella stessa reietta, ella stessa invisa a Dio, invisa all’uomo. Ma stringe tra le mani l’amato e la sua perdizione diviene la sua unica ragione di vita, la sua missione, lo scopo del suo folle sbarco.
Giovanni Di Rubba