Una delle più imponenti operazioni economico-giudiziarie degli ultimi anni ha colpito duramente il clan D’Alessandro di Castellammare di Stabia, con il sequestro preventivo di beni per un valore complessivo di circa 25 milioni di euro. Il provvedimento, disposto dal GIP del Tribunale di Napoli su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia, è stato eseguito dai carabinieri del nucleo investigativo di Torre Annunziata e rappresenta il fulcro dell’inchiesta Domino III, che ha già portato all’arresto di undici persone e all’individuazione di un articolato sistema criminale operante in tutta l’area stabiese.
L’inchiesta Domino III: undici arresti e accuse gravissime
Al centro dell’inchiesta Domino III, coordinata dal procuratore Nicola Gratteri, dall’aggiunto Sergio Ferrigno e dal sostituto Giuseppe Cimmarotta, vi sono undici indagati ritenuti gravemente indiziati, a vario titolo, di reati quali associazione mafiosa, estorsione, detenzione e porto di armi da fuoco, corruzione in atti giudiziari e altri delitti aggravati dal metodo mafioso, con l’obiettivo di agevolare il clan D’Alessandro.
I sequestri eseguiti si estendono su un territorio vastissimo, da Castellammare di Stabia a Lettere, passando per Gragnano, Angri e arrivando fino a Pompei. I beni colpiti dal provvedimento comprendono immobili, terreni, veicoli, conti correnti, società, negozi di abbigliamento, bar, ditte edili, e appartamenti di lusso, segno tangibile della capillarità dell’organizzazione criminale sul tessuto economico del territorio.
Un impero economico costruito attraverso affari leciti e illeciti
Le indagini hanno portato alla luce un sistema ramificato e sofisticato di investimenti del clan. Il boss Vincenzo D’Alessandro, figlio del defunto padrino Michele D’Alessandro, aveva avviato nel 2021 una società in Sardegna per la procacciatura d’affari nel settore elettrico, mentre il figlio Giovanni aveva fondato una ditta per il commercio all’ingrosso di caffè. Parallelamente, Giuseppe Oscurato era coinvolto nella gestione dei videopoker e nella distribuzione di macchinette self-service per snack e bevande.
Tutti questi settori, apparentemente innocui, hanno in realtà rappresentato veicoli per il riciclaggio e l’occultamento dei proventi illeciti. L’Antimafia ha ricostruito i movimenti finanziari legati a decine di conti correnti, per un totale stimato in circa 20 milioni di euro. Secondo gli inquirenti, le attività economiche sequestrate erano strumentali al reinvestimento del denaro sporco derivante da estorsioni e traffici illeciti.
Il caso Verdoliva: “Le Tre Caravelle” simbolo della contaminazione criminale
Uno dei beni simbolo finiti sotto sequestro è il ristorante “Le Tre Caravelle”, situato sulla villa comunale di Castellammare di Stabia, a pochi metri dal lungomare. Il locale, noto per i suoi piatti a base di pesce e frequentatissimo soprattutto nei fine settimana, è risultato essere gestito da Luciano Verdoliva, alias ‘O pescatore, ritenuto colonnello del clan D’Alessandro.
Secondo l’Antimafia, il ristorante era la facciata imprenditoriale dietro cui si celava una delle figure apicali del clan, un uomo dalla doppia identità, stimato ristoratore nella vita civile, ma camorrista attivo nel narcotraffico e nelle estorsioni nei contesti criminali. “Le Tre Caravelle”, insignito di diversi riconoscimenti gastronomici, era in realtà, per gli inquirenti, uno dei simboli più chiari della pervasività della camorra nella vita quotidiana della città.
Luciano Verdoliva: il boss tra pesce fresco e processi per mafia
Luciano Verdoliva, 47 anni, è figlio di Giuseppe Verdoliva, detto Peppe l’autista, storico factotum del boss Michele D’Alessandro. Inserito da anni nelle gerarchie del clan, Verdoliva è noto per la sua passione per i pitbull e la pesca, e non ha mai nascosto il proprio volto, nemmeno sui social. Su TikTok, si mostra mentre sceglie il pesce fresco per il suo ristorante, raccogliendo migliaia di visualizzazioni.
Il suo curriculum giudiziario è pesantissimo: è attualmente imputato nel procedimento Cerbero, ed è indagato a piede libero proprio nell’ambito di Domino III. Solo pochi mesi fa è stato assolto dall’accusa di omicidio aggravato dal metodo mafioso, in un processo segnato da un clamoroso dietrofront del pentito Ciro Sovereto, che in aula non ha confermato le dichiarazioni precedenti. La sera della sua scarcerazione, una cinquantina di persone lo hanno accolto all’esterno del ristorante, con un spettacolo pirotecnico abusivo il cui video ha fatto il giro del web.
Funzionari, geometri e insospettabili: i nomi coinvolti nel maxi sequestro
Tra le figure coinvolte figurano anche due insospettabili professionisti: Angelo Schettino, geometra, e Fabrizio Jucan Sicignano, funzionario del Comune di Ercolano. Entrambi sono stati raggiunti da misure patrimoniali, con il sequestro di immobili e conti correnti per decine di migliaia di euro.
Schettino è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, ed è attualmente detenuto dopo la conferma del carcere da parte del Tribunale del Riesame. Sicignano, invece, risponde del reato di estorsione ed è rimasto in cella dopo aver rinunciato alla pronuncia dei giudici. Le loro presunte connessioni con il clan rafforzano, secondo l’Antimafia, l’idea di una infiltrazione trasversale della camorra nei gangli istituzionali e tecnici.
Un dono del boss: la casa alla figlia di una vittima
Emblematico anche il sequestro dell’abitazione di Katia Scelzo, figlia di Pietro Scelzo, ucciso dal clan D’Alessandro nei primi anni Duemila. Secondo gli inquirenti, la casa le sarebbe stata “regalata” da Luciano Verdoliva in segno di riconoscenza per non aver testimoniato nel processo che vedeva imputato il presunto mandante dell’omicidio del padre.
Un gesto che, per l’Antimafia, è altamente significativo nel mostrare la strategia di consenso e controllo esercitata dal clan sul territorio, fatta anche di beneficenze apparenti e silenziosi atti intimidatori.
L’economia criminale che si traveste da normale
Il decreto di sequestro, firmato dal GIP Fabrizio Finamore, contiene oltre 250 pagine di ricostruzioni dettagliate, documentando come il clan D’Alessandro abbia saputo infiltrare ogni settore produttivo locale: dall’edilizia alla ristorazione, dai giochi d’azzardo al commercio al dettaglio, fino alla pubblica amministrazione.
Un impero illecito che ha trovato nella copertura imprenditoriale e nel trasformismo dei boss il suo più potente alleato. Secondo le accuse, molti dei beni sequestrati sarebbero frutto diretto o indiretto delle attività delittuose commesse dagli affiliati e servivano a rafforzare la presenza del clan nel tessuto economico e sociale del comprensorio stabiese.










