Sono tornati, canadair e elicotteri. Sono tornati poco dopo l’alba. E hanno ripreso, dalle sei e mezza, il loro instancabile vai e vieni dalla montagna al mare e dal mare alla montagna. Uno, due, tre cinque, dieci, venti focolai lanciano ancora fiamme verso il cielo, senza sosta. A volte, le lingue di fuoco si fondono in un unico serpente infame e velenoso, come le mani di chi ha dato inizio alla catastrofe, e guizzano dalla chioma di un pino, all’altro. Decine di ettari di pineta e macchia mediterranea sono andati in fumo. Cupaccia, Tirone, la strada Matrone, l’area della Zabatta dietro il campo sportivo di Terzigno, sono ancora in fiamme. Migliaia di animali: volpi, lepri, civette, uccelli, sono in fuga dalla montagna. Chi non ce l’ha fatta, tra loro, è rimasto arrostito, su quello che aveva stimato essere il paradiso terrestre, la casa.
Sulla piana vesuviana sud, adesso, passate da poco le sette del mattino, si stende una nuvola marroncina e acre che prende alla gola e soffoca. Venerdì nero, per la Montagna di Napoli. Notte terribile. E oggi, sabato, non si sa ancora come sarà. Il Vesuvio, il lato sud, da Terzigno a Boscotrecase ha bruciato tutta la notte. Le fiamme hanno lambito le case più in alto. Pochi vesuviani, dal lato di Ottaviano, Terzigno, San Giuseppe Vesuviano, Boscoreale, Boscotrecase, Trecase, Torre del Greco, hanno dormito. Gli occhi erano puntati sulle fiamme e sul fuoco che stava devastando il territorio, la loro montagna.
Chiedono notizie, informazioni. Ne arrivano poche e frammentate. A bocce ferme, poi, si discuterà. Si esamineranno i fatti. Si capirà se tutte le misure di prevenzione, necessarie a impedire questa nuova catastrofe sulle pendici del Vesuvio, erano state messe in atto. Se esiste un numero sufficiente di aree tagliafuoco e se queste ultime hanno funzionato bene o meno bene. Si saprà se fossero state attivate vasche – contenitori per acqua in maniera da evitare che gli elicotteri sprecassero anche solo pochi minuti nell’andare e tornare dal mare di Torre Annunziata.
Si accerterà se le telecamere della rete di sorveglianza erano tutte attive e se hanno fatto il loro dovere, riprendendo anche le formiche che varcavano la linea immaginaria che segna il confine tra la strada della Zabatta e la pineta. Se il personale in servizio nel parco è sufficiente per controllare la grande quantità di ettari boschivi della montagna oppure c’è necessità di una sostanziosa integrazione di forze. Se magari il primo accenno d’incendio ha avuto la giusta valutazione. Se i volontari allertati e la protezione civile sono equipaggiati per affrontare situazioni estreme come questa.
Non bisogna mai scordare che il Vesuvio come tutte le montagne, e i vulcani, non è “un’autostrada” e sono più le zone inaccessibili che le altre. Se, se, se: particelle che con i ”ma” sono scarrupative. Domande che vorremmo avessero una risposta. Come anche servirebbe sapere se nell’ultimo grande incendio, quello del 2017, vennero intercettate persone sospette. E se questi sospetti si sono poi tramutati in certezze e i presunti colpevoli sono stati portati in tribunale. E se il o i processi eventualmente istruiti hanno avuto qualche esito. E quali sono stati.
Ancora i “se”, tanti. E ancora domande. Altrettante. Le risposte sono un obbligo. La gente vesuviana, quella che nonostante tutto abita, vive e muore ai piedi della sua Montagna, ha tutto il diritto di sapere. Perché, poi, a pagare, saranno loro. Pagheranno con l’aria avvelenata che hanno respirato; pagheranno con tumori e malattie i danni subiti ai polmoni; pagheranno perché i terreni e i vigneti da loro coltivati o se ne sono andati in fumo oppure hanno assorbito tanti di quei veleni che i prodotti sono diventati invendibili.
Hai voglia a sponsorizzare il “piennolo” del Vesuvio e i suoi pomodorini; hai voglia a magnificare il Lacryma Christi. Hai voglia a vantare la cresommola pellicchiella o la “cafona”. Quante piante sono morte? Cosa rimane di queste coltivazioni “doc” del Vesuvio? Questo interessa sapere. Anche per rispetto di chi ieri notte e ieri mattina e ieri pomeriggio s’è fatto, e si farà ancora oggi e nei giorni a venire, il mazzo per arginare, contenere, soffocare il fuoco.
E questo non serve saperlo tra un anno, o due. Serve conoscerlo adesso. Tra qualche settimana, al massimo qualche mese. Perché il prossimo incendio, la prossima catastrofe potrebbe far diventare un deserto quello che era un paradiso. Una distesa di ceneri e pietre e tronchi morti. Un paesaggio lunare e spettrale. E i suoi abitanti, gente senza più speranza. Serve sapere, per dignità e rispetto di un popolo.
Carlo Avvisati