Il Vesuvio Pride a Castellammare di Stabia ha acceso il dibattito politico, soprattutto a causa dei costi della manifestazione. Alla notizia della spesa sostenuta dal Comune, alcuni esponenti del centrodestra locale avrebbero parlato di “carnevalata”, provocando la reazione di esponenti istituzionali e politici di centrosinistra.
Polemiche sui costi e sui termini usati
La vicepresidente del Consiglio regionale della Campania, Loredana Raia, ha definito il Pride “una manifestazione importante di sensibilizzazione sui diritti civili, contro le discriminazioni” e ha sottolineato che derubricarlo a carnevalata “richiama antichi stereotipi omofobi”. Raia ha inoltre ricordato l’impegno della Regione, con la Legge 37/2020, per contrastare le discriminazioni e sostenere la comunità LGBTQIA+, citando anche un recente bando da 600.000 euro per l’istituzione di Sportelli e Rifugi Arcobaleno.
La difesa del Pride da parte di Tonino Scala
Sulla stessa linea il segretario regionale di Sinistra Italiana, Tonino Scala, che ha detto di restare “sbigottito non tanto dalla critica, quanto dal modo in cui è stata espressa”. Scala ha contestato il termine usato nei confronti dell’evento, ricordando che il Pride “non è un travestimento folcloristico, ma il frutto di decenni di battaglie civili”. Ha inoltre precisato che il contributo comunale non è in denaro, ma in servizi, come maxi-schermo, microfoni e ambulanze, necessari per garantire sicurezza e accessibilità durante manifestazioni pubbliche.
La replica di Mario D’Apuzzo
Critica al concetto di “intervento culturale”
Mi spiace affermare che le dichiarazioni, rilasciate dalla vicepresidente Raia in merito alla questione Gay Pride a Castellammare, sono alquanto inquietanti, non solo per ciò che rimarcano, ma per l’arroganza intellettuale che le permea: l’idea, tipicamente autoritaria, che sia necessario intervenire culturalmente per correggere chi osa non allinearsi alla sua visione.
È un concetto pericoloso e profondamente antidemocratico. In una democrazia vera, la cultura si nutre di pluralismo, non di pensiero unico imposto dall’alto. Ho espresso un’opinione legittima, tutelata dalla Costituzione, e la libertà di parola non vale solo per chi applaude il potere, ma soprattutto per chi lo contesta. Pretendere di zittire o marchiare di infamia chi dissente, in nome della “democrazia”, è un abuso semantico e politico. Una parte politica forte e onesta non teme il dissenso: lo affronta con argomenti, non ricorrendo a etichette infamanti o, peggio ancora, a richiami da rieducazione ideologica.
“Carnevalata” o “carnevale ideologico”
Va chiarito che non ho mai usato il termine “carnevalata”, ma carnevale ideologico, espressione che la signora Raia manipola ad arte per deformare il mio pensiero. Chi non comprende la differenza non ha gli strumenti per partecipare a un dibattito serio; chi la comprende, ma la distorce, è in malafede. Quando la vicepresidente dichiara che “c’è ancora bisogno dei Pride” e che serve “intervenire culturalmente”, traduce in linguaggio istituzionale un messaggio agghiacciante: chi non condivide il dogma deve essere “corretto”.
Il rischio di un rito ideologico
Questa è la logica del catechismo politico, non del confronto democratico. Così si trasforma un’iniziativa nata per la libertà in un rito ideologico obbligatorio, dove la dissidenza è un peccato da espiare. La libertà culturale non è portare tutti alla stessa visione, ma consentire a visioni diverse di convivere.
Critiche alla formula attuale del Pride
I Pride hanno avuto un ruolo storico nella conquista di diritti, ma oggi è legittimo domandarsi se la formula spettacolare sia ancora efficace o se sia degenerata in un folklore autoreferenziale, spesso finanziato con soldi pubblici. E discutere di costi e modalità non è un atto ostile verso i diritti: è un dovere civico!
L’uso del linguaggio come “manganello”
Il vero pericolo culturale non è il dissenso, ma la distorsione del linguaggio usato come manganello dialettico. Parole come “omofobia” o “intervento culturale” diventano armi retoriche per screditare e silenziare. Questo non eleva il dibattito: lo degrada. Se davvero si vuole che il Pride sia inclusione e dialogo, bisogna accettare che possa essere criticato. Difendere la possibilità di esprimere opinioni scomode non è un’offesa ai diritti civili, ma la condizione stessa per preservarli. Il pensiero unico, qualunque vessillo agiti, resta il peggior nemico della libertà.