Nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, Libera e Catena Rosa rilanciano un messaggio netto: la lotta alle mafie e la lotta al patriarcato sono inseparabili. In territori come Torre Annunziata, dove il potere criminale si intreccia con una radicata cultura maschilista, le due forme di dominio si rafforzano reciprocamente, colpendo soprattutto le donne.
I numeri raccontano un’emergenza che non accenna a diminuire: un femminicidio ogni 72 ore, una donna su tre vittima di violenza, 133 donne uccise dalle mafie, 36 delle quali minorenni. Dati che, nel contesto oplontino, trovano una drammatica conferma nelle storie delle vittime innocenti.
Le storie simbolo: Rosa Visione e Matilde Sorrentino
A Torre Annunziata la violenza del patriarcato mafioso ha un volto preciso. È quello di Rosa Visione, uccisa per mano dei clan, vittima innocente di una logica di potere che non risparmia nessuno. Ed è quello di Matilde Sorrentino, madre coraggio che non ha avuto paura di denunciare un sistema pedofilo legato alla criminalità organizzata. È stata assassinata “perché donna, perché simbolo, perché corpo su cui imprimere la legge del più forte”.
Due storie diverse, unite da un destino di ingiustizia che racconta meglio di qualsiasi dato cosa significhi essere donna in territori segnati dalla violenza criminale.
Le vittime silenziose: mogli, figlie, madri dei clan
Accanto alle donne uccise, ci sono le donne che non fanno notizia: mogli, madri e figlie dei camorristi, costrette a vivere nella paura, nel lutto e nell’isolamento. Una condizione che raramente emerge nella narrazione pubblica, ma che rappresenta una delle forme più profonde di violenza patriarcale: donne condannate a ruoli imposti, senza alternative, intrappolate in un destino deciso da altri.
Le “reggenti” dei clan: potere apparente, prigionia reale
Ci sono poi coloro che ereditano ruoli di comando quando gli uomini vengono arrestati o uccisi. Le cosiddette “donne reggenti” dei clan: figure spesso raccontate come nuove boss, ma che restano, in fondo, vittime di un sistema che le modella secondo logiche maschili. Il patriarcato mafioso concede loro potere solo come prolungamento della violenza degli uomini, rendendole allo stesso tempo carceriere e prigioniere.
Perché non si ribellano?
Molti si chiedono perché tante donne, anche nei contesti vicini alla criminalità organizzata, non trovino la forza di ribellarsi. La risposta, osservano Libera e Catena Rosa, è nella capacità del patriarcato di farsi accettare come normale: convincere le donne che non esistono alternative, che i ruoli sono già scritti, che obbedire è l’unico modo per sopravvivere.
Eppure, quando le donne scoprono la forza della sorellanza, della solidarietà e dell’autodeterminazione, diventano capaci di scardinare non solo la violenza domestica, ma anche quella mafiosa. Una trasformazione che avrebbe un impatto sociale enorme.
Le richieste: educazione, cultura, comunità
Libera e Catena Rosa, nel loro documento, avanzano alcune priorità:
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La lotta alla mafia deve passare necessariamente anche attraverso lo smantellamento del patriarcato.
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Serve un cambiamento culturale che parta dalla scuola e dalle periferie più fragili.
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Le donne devono essere protagoniste di nuovi percorsi di giustizia, con reti di protezione solide e sostegno reale.
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Torre Annunziata e territori analoghi devono diventare priorità nell’agenda politica, perché povertà, servizi insufficienti e presenza criminale aggravano la vulnerabilità femminile.
Non basta reprimere: bisogna prevenire
Ci vogliono politiche coraggiose, interventi educativi continui, centri antiviolenza stabili e investimenti sociali duraturi. Perché – ricordano le associazioni – dove le donne sono libere, le mafie si indeboliscono.
E dove c’è giustizia di genere, c’è giustizia sociale.









