Nella sintesi metafisica lo Spazio, più che una categoria universale, oscillante tra gli estremi della ferocia (“Mein Kampf”) e del provvido sistema olistico (“generazione 2.0” ), è un incidente nel Tempo. L’anacronismo della scultura – il suo essere spazio occupato, aria violata -, la dimensione sua, come di ogni comunicazione plastica, di silenziosa rivelazione, di frase non detta (quanti “Untitled”!), ne fanno un enigma. E un paradosso. Perché le cose, tutte, collocate nel Teatro del tempo hanno la giustificazione nell’essere, col pedaggio pagato dell’utile o della scelta. Labirintica e casuale appare, invece, la selva di segni che ha invaso Spazio 011, che pure, all’esordio – 0.1.1.- richiama una rigorosa successione di necessità. Così, finalmente superati il sofisma della perfezione, la vaghezza della perdurante immutabilità, si avventurano, le opere esposte, nelle regioni del Senso, si fanno suture di luce, materia semantica – “ignoro se il marmo sa disperare del marmo” annuncia dal passato il cieco visionario –, a cercare originari nuclei di pensiero che non generano memoria, né ne richiedono. Al centro, ogni volta mutevole, della stanza, nell’incandescenza febbrile, che la Forma cattura nell’attimo di una sopraggiunta pausa, offrono certezze sempre effimere. Lì, dove la luce può essere incendio e alba, la matrice primigenia, contatto alle dita o limite al pensiero, la Verità, sorgente notturna che non disseta. Eppure sgorgante, puro rumore nel buio.
Lì, dove anche il punto di vista non ha più un senso se non quello di restituirlo all’ombra della statua nella sonnolenza del meriggio, quando il sole è alto e cade a perpendicolo.