“La musica non ha frontiere, perché è un linguaggio universale. Quando una persona suona e butta fuori quello che ha dentro dal punto di vista di cuore e anima, non è difficile suonare insieme. Si comunica anche senza parlare”. Con queste parole Pino Daniele, raccontava la sua idea di musica, che gli permetteva di esprimersi usando un linguaggio aperto a tutti, mettendo in luce il legame intimo e profondo con la città di Napoli e con la sua lingua e, al tempo stesso, la sua capacità di diventare un artista apprezzato anche a livello internazionale.
“Sono nato con la canzone in lingua napoletana”, diceva, “e ho scoperto che, avvicinandomi a certi suoi canoni, si potevano scrivere cose nuove”. Da qui è partita la sua avventura artistica, negli anni Settanta. Da una Napoli che, da sempre, è profondamente connessa con il suono, e ha sempre parlato attraverso la sua musica, alimentata dai suoni della città. Una Napoli che, in quegli anni, ha visto nascere un movimento di canzone moderna partenopea che non ha mai tagliato i ponti con la tradizione. Il gruppo storico che si è formato attorno al musicista straordinario che è stato, e che è, Pino Daniele (composto da Tullio De Piscopo, Joe Amoruso, Rino Zurzolo, Tony Esposito e James Senese, partenopei come lui, compagni fraterni di tante tournée, concerti ed eventi) non si è staccato dalla sua cultura di appartenenza, e ha dato vita a una nuova sonorità. Usando un linguaggio del tutto nuovo, quello della Napoli di strada, e, da questa, portandolo ad un livello culturale più raffinato ma comprensibile a tutti.
Nel ricordare com’era nata la canzone “’Na tazzulell’ e cafè”, del 1976, Daniele raccontava che “è stata pensata alla fermata di un pullman. Perché il caffè non è più inteso come un fatto di folklore, ma è una realtà, è quel nascondere determinate cose, come i politici che ci fanno fessi. L’ho usato in senso ironico, anche se ho cercato di usare un motivetto semplice per arrivare a tutti”. Voleva essere una canzone di protesta, un pugno nello stomaco per Napoli e i napoletani, scritta con la consapevolezza che, negli anni Settanta, il suo modo di cantare e di scrivere in napoletano “rappresenterà negli anni Ottanta il dissenso di una generazione, di una coscienza politica che in quel periodo nasceva insieme agli artisti, legati a un cambiamento giovanile.
La mia fortuna – affermava – è stata quella di essere un po’ più attento alla musica, al ritmo. Ho sempre cercato di partire da una canzone, e poi, sullo schema, di cercare di improvvisare. Ma, per farlo, devi studiare uno strumento e devi amare il linguaggio dell’improvvisazione”.
Con questa sua unicità, forza e potenza verbale, Pino Daniele è riuscito, negli anni, a portare la canzone napoletana tra i giovani ben oltre Napoli, dando una riconoscibilità nazionale e internazionale al dialetto, meno formale e più colloquiale dell’italiano, e veicolo di emozioni senza filtri. Al punto che il termine “Apucundria” della sua canzone omonima è stato inserito nell’Enciclopedia Treccani, ad indicare uno stato d’animo indefinito, una vaga malinconia, che è caratteristica dello spirito napoletano, narrato in musica in modo così efficace da Daniele.
A chi gli chiedeva che cosa fosse per lui la canzone, Pino Daniele rispondeva che era “qualcosa per vivere, l’espressione dello stato d’animo di certi momenti e la possibilità di poter dire quello che si pensa e che a volte non si riesce a dire con le parole”. Una risposta, e una ragione di vita, che lo hanno reso inimitabile e immortale.
Viviana Rossi