Alessandro Impagnatiello, l’ex barman condannato all’ergastolo per l’omicidio della compagna Giulia Tramontano, incinta di sette mesi, avrebbe somministrato alla donna il veleno per topi non per ucciderla ma per tentare di provocarle un aborto. È quanto scrive la Corte d’Assise d’Appello di Milano nelle motivazioni della sentenza depositata il 25 giugno, che ha confermato la condanna al carcere a vita per l’uomo, escludendo tuttavia l’aggravante della premeditazione.
«L’obiettivo era il feto»
Nelle 59 pagine depositate, i giudici spiegano che «non vi sono prove che consentano di retrodatare il proposito di uccidere Giulia rispetto al giorno del delitto». Le ricerche compiute da Impagnatiello nei mesi precedenti sul topicida, avviate dopo aver appreso della gravidanza, non sarebbero quindi finalizzate all’omicidio ma all’«aborto del feto, identificato dall’imputato come “il problema” per la sua vita e la sua carriera».
I valori di veleno riscontrati nel corpo di Giulia e in quello del piccolo Thiago, che portava in grembo, risultano infatti «ben al di sotto della soglia letale». Una circostanza che, secondo i magistrati, conferma la versione data dallo stesso Impagnatiello in aula: «L’unico mio scopo era purtroppo colpire il bambino, non volevo fare del male a Giulia».
Quanto all’omicidio del 27 maggio 2023 – 37 coltellate inflitte alla compagna nell’abitazione di Senago (Milano), seguito dal tentativo di bruciarne il corpo poi nascosto e ritrovato dopo quattro giorni – i giudici escludono la premeditazione perché «consumato in un ristretto arco temporale», tra il rientro a casa alle 17 e l’aggressione delle 19.
La vicenda dell’auto e la causa civile
Parallelamente al processo penale, i familiari di Giulia Tramontano hanno avviato una causa civile per impedire che l’auto di Impagnatiello – usata nei giorni successivi al delitto per trasportare e occultare il corpo della giovane – continuasse a circolare. Il veicolo, infatti, non era stato sequestrato dalla Procura per un errore tecnico: era stato bloccato soltanto il pianale posteriore, dove erano state trovate tracce di sangue.
Pochi mesi dopo il delitto, l’ex barman – tramite il fratello Omar e con procura firmata dal carcere – aveva venduto la vettura alla cognata, moglie del fratello. Una mossa che, secondo il Tribunale civile di Milano, aveva lo scopo di far apparire l’imputato nullatenente, così da ostacolare i risarcimenti ai familiari della vittima.
Il giudice Francesco Pipicelli ha quindi dichiarato la nullità della compravendita e condannato la cognata a risarcire la famiglia di Giulia con poco meno di 25mila euro.
La rabbia della famiglia Tramontano
Sui social, Chiara Tramontano, sorella di Giulia, ha commentato duramente le motivazioni della sentenza d’appello e la vicenda civile, accusando Impagnatiello e i suoi familiari di voler eludere ogni responsabilità economica.
La giovane ha ricordato anche la richiesta, respinta dai giudici, con cui l’ex barman aveva tentato di accedere alla giustizia riparativa: «Vergogna, vergogna. La chiamano legge ma si legge disgusto».