Un mese fa circa si consumava una tragedia. Un’altra, l’ennesima. Diana Biondi decideva di mettere fine alla propria vita. Una giovane vita spezzata insieme ai suoi sogni. La cui “colpa” ricade su un sistema universitario e sociale che è marcio nel profondo, ma di cui spesso si parla poco. La ragazza, stando a quanto riportato dai media, si sarebbe tolta la vita a causa delle difficoltà incontrate nel percorso universitario.
Non è stato il primo caso del genere, ce ne sono stati altri e se si continuerà a perseguire un determinato tipo di retorica purtroppo non sarà l’ultimo. Ma qual è questa retorica? Principalmente di base c’è sicuramente un’insensibilità di fondo delle dinamiche personali di ogni studente sia con i professori sia con gli altri studenti. Ed è questa la cosa che preoccupa di più. Se un professore universitario, per professione e per ruolo, è tendenzialmente più schivo nei confronti degli studenti, rispetto a un docente scolastico (fatte le dovute eccezioni), tra gli studenti di uno stesso corso di laurea ci si aspetterebbe un rapporto simile a quello instaurava in classe a scuola.
Lettera di uno studente a Diana Biondi, studentessa suicida di Somma Vesuviana
Purtroppo questa aspettativa spesso viene delusa. L’università sembra essere diventata una gara. In cui quello che conta non è l’acquisizione di conoscenze e competenze. Bensì laurearsi nel più breve tempo possibile con la più alta media possibile. Il Governo di Giorgia Meloni ha cambiato denominazione al ministero dell’Istruzione trasformandolo in Istruzione e Merito. E questo “merito” è il vero punto nefasto.
Chiariamo: la questione non è che chi è bravo non deve essere premiato, ma per un giusto merito bisognerebbe avere una giusta equità. Cosa intendiamo per equità? Non è l’uguaglianza che è un concetto ben diverso. Facciamo un esempio. Immaginiamo uno spettacolo. Tre persone con altezze diverse che lo guardano da bordo campo. Secondo il concetto di uguaglianza a tutte e tre, indistintamente, viene assegnato un gradino. Così facendo, però, la persona più bassa non riesce comunque a vedere lo spettacolo; la persona media vede leggermente meglio e la persona più alta, che già vedeva bene, con il gradino vede ancora meglio. Dunque chi ha di meno non ha abbastanza ed è quello che succede oggi nella nostra società.
Parliamo realmente del merito
L’equità è una cosa diversa. Per equità alla persona più alta non avremmo dato nessun gradino perché già in grado di vedere senza; alla persona di altezza media un gradino per farla vedere meglio e alla persona più bassa due gradini per far vedere bene anch’essa. Dovremmo cercare di applicare questo esempio nella realtà, chi ha di meno dovrebbe avere di più.
Solo così si potrebbe parlare realmente di merito, perché è molto più semplice per uno studente di una famiglia agiata poter completare gli studi in tempi brevi e con ottimi voti, mentre ci sono migliaia di studenti che sono costretti a lavorare per mantenersi gli studi. E questo comporta quasi inevitabilmente una maggiore difficoltà nell’affrontare il percorso universitario.
Quei casi eccezionali esaltati dalla stampa
Purtroppo certa stampa esalta casi eccezionali: “Studente si laurea a soli 22 anni”, “Studente a 25 anni consegue la terza laurea con il massimo dei voti”. Ma se andiamo ad analizzare i casi eccezionali nel dettaglio vediamo che molto spesso essi erano figli di famiglie molto ricche il che ha sicuramente agevolato il loro percorso. Ma soprattutto questo esaltare le eccezioni le fa in qualche modo percepire come la normalità.
Sarebbe meglio leggere articoli del tipo “Studentessa si laurea a 26 anni, ha avuto difficoltà nel suo percorso, ma alla fine ce l’ha fatta”. Purtroppo Diana non ce l’ha fatta, Diana ha sentito troppo la pressione, tutti noi dobbiamo chiederle scuse, perché non si può morire di università. Voglio riportare le parole di una studentessa della Federico II: “Il caso di Diana ci ha toccati tutti: perché? Dopo quello che è successo, si è venuto a creare un momento di condivisione non solo nei gruppi Whatsapp, ma anche nelle aule universitarie.
Sono state date tante risposte, ma il sentimento fondamentale alla base di tutte è sempre lo stesso, ossia quello di una profonda comprensione per il gesto e le sue motivazioni. Siamo stressati, stanchi ed esposti a un mondo del lavoro sempre più incerto. A quest’ultimo dato, esterno, si aggiungono tutte le pressioni sociali che provengono dalla famiglia, dagli amici, ma soprattutto da noi stessi – basti pensare a quante volte ci viene chiesta la data della seduta di laurea!
Alla fine, si finisce per interiorizzare questa domanda, che diventa un peso sulle nostre spalle e diventiamo, così, i peggiori nemici di noi stessi. Ma non è solo questo: la burocrazia infernale e la volubilità costante dei professori rendono il clima ancora più asfissiante e incredibilmente tossico. Da studentessa universitaria all’ultimo anno di magistrale condivido con molti miei amici e colleghi la voglia di andare via il più in fretta possibile. La speranza per il futuro è quella di una maggiore solidarietà tra gli studenti stessi, spinti alla competizione dai voti e dal mercato del lavoro: se il sistema è destinato a non cambiare, l’unica soluzione è quella di aiutarci tra di noi, in una sorta di leopardiana social catena”.
Michele Mercurio